Caduta vorticosa in deliquio

Battagliero. Rapinoso. Estensivo. 

Chiunque abbia un benché minimo rapporto di confidenza con la letteratura, con i libri, chiunque frequenti seppure a singhiozzo questa chimera che ci piace chiamare “mondo intellettuale” saprà, per esperienza immediata e diretta, che le delusioni più profonde che un libro può infliggere al suo lettore sono perlomeno due e si potrebbero riassumere così: la melanconia suscitata da un prodigioso contenuto che non emerge e, anzi, viene nascosto da una forma insufficientemente capace; quel senso di depressione innescato da una forma acuta e sinuosa, che però riesce a mettere in risalto solo se stessa, dimenticandosi della narrazione, dalla successione, diventando pura, magnifica superficialità. Per quanto questi due esempi di squilibrio possano intersecarsi con infinite altre variabili, e al contempo profondamente sedurci per la loro insufficienza, il senso del discorso è che l’equilibrio tra i due motivi di melanconia - quella stilistica e quella contenutistica - è un coefficiente raro, obliquo, ricercato ovunque con poco successo. 

Cos’hanno in comune la sensualità del binomio volumen-rivoluzione e gli affari di un gioielliere newyorkese spettatore della propria interminabile caduta? la teoria della sensazione di Merleau-Ponty e i mulinelli atomici studiati da Thompson? gli studi sul movimento di Zenone di Elea e la turbolenza del mondo dell’uomo mescalinico? Ognuna di queste spinte concorre nella fabbricazione di un concetto che riflette un problema preciso, il concetto di vortice. In Vortici (Orthotes 2020), Tommaso Tuppini, rimanendo fedele alla danza vorticosa delle parole e del loro specchio significante, non analizza alcunché, non racconta una storia, non cede alla pretesa organizzativa della storicità, della cronologia. Nella corrente di un vortice non viene rispettata una sequenza lineare di prima e poi, dentro e fuori, avanti e indietro. Il vortice è anzi la soglia del segnare, il percorso attraverso il limite della discontinuità dell’attimo tra prima e poi; il vortice è questo percorso stesso, esso è divenuto divenire: Tuppini segna, e continuamente cancella e risegna, nello spazio di un libro, ciò che nel vortice succede, quello che nel vortice ha visto. E di questa forma d’esperienza inaudita non si può parlare altrimenti che così. 

Riprendendo l’apertura: in Vortici le due melanconie del lettore sono soddisfatte nel punto di massima tensione, nello spettacolo precarissimo, turbolento, squilibrato della corrente. É per questo motivo che il paradigma vorticoso si dimostra, a un tempo, avventuriero e seducente, equilibrato e squilibrato, tossisco e curativo. Ogni parola parla veramente gli infiniti vortici che in essa sono contenuti. Tale paradigma è di una semplicità naturale -  l’acconcia metafora di cui si serve Tuppini esibisce l’immagine dei flussi e reflussi che provocano un mulinello idraulico, squadra cioè la visione dell’incontro tra una forza attiva (corrente idraulica) e una reattiva (sasso, residui materici) le quali danno vita ad una sfasatura (p. 20): il turbine delle acque smette di intrecciarsi caoticamente e comincia ad annodarsi in una spirale fissa ma in continuo movimento. In questo senso «il vortice è una novità perché il movimento che imprime alle parti d’acqua non è deducibile né dalle correnti né dal sasso» (p. 15). Il vortice è dunque analitico e sintetico ad un tempo. La novità del vortice consiste nel trasformare l’improduttività turbinosa potenzialmente contenuta in ogni vuoto in una nuova organizzazione-disorganizzazione creativa. La creazione del concetto risponde allora ad un obiettivo problematico primario: la critica e il superamento dell’antropomorfismo, quindi del trascendentalismo, quindi delle varie forme di “trascendentalismo mascherato” - relazionismo o sostanzialismo. La necessità formare, sformare e rappresentare ad una inedita e ignota comunità possibile - trasversale ed eterogenea, che non debba essere per forza o carne o pesce, stufa delle ovvietà antiestetiche, dei fili anche troppo lineari, dell’acquiescenza a modelli - tra i più banali - imposti da chissà chi. Tuppini costruisce per noi una casa; vortice può essere il nome di un rifugio sempre vivo. 

Ogni frase è un turbine, ogni parola è instabile in un giro di danza. Accedere al vortice significa riuscire a vedere la molteplicità delle entrate. Entrare nel vortice può significare passare per la turbolenza: «la formazione di un vortice è sempre preceduta da una turbolenza, ma non necessariamente la turbolenza mette capo a un vortice» (p. 66). Come si produce una turbolenza esistenziale? Per Tuppini la risposta è facile, per noi convincente: a produrre la turbolenza è l’esperienza mescalinica del mondo. Il mondo senza mescalina è la storia lineare, ben disposta, luminosa e significante degli eventi. Il lavoro turbolento della mescalina «inaugura un’esperienza che si strappa dal sempreuguale dell’abitudine […] cancella i significati del mondo e toglie all’uso senziente ogni possibilità di accasarsi e sostare» (p. 67). L’uomo mescalinico non è un mondo - come l’animale - e non ha un mondo - come l’uomo lineare, logico, borghese, come si vuole - bensì cade e si rovina con la caduta e la rovina del mondo: è quella rovina continua che il mondo stesso continuamente è. La mescalina non è un’apertura tra le altre né un ingresso facilitato per rinnovare/disfarsi dell’ordine delle cose; la mescalina è il prodotto di una valutazione: si tratta di una sostanza allucinogena molto particolare. Non è subitanea e idiota come la cocaina o la nicotina, non gode della potenza empatogena delle feniltilamine ma la sua forza scombinatoria e ricombinatoria  è straordinaria. Non è un fatto secondario che la mescalina sia una droga il cui consumo prevede l’ingestione, una droga che deve essere digerita, elaborata: tramite la lenta metabolizzazione del principio, l’intossicato non riesce a rendersi conto dell’esatto momento in cui i paraggi stanno sfumando e di quando il mondo perde la significanza ordinaria che solitamente gli attribuiamo. Resta lo spazio di trasformazione, di moltiplicazione: la digestione non permette all’uomo mescalinico di riconoscere il limite come limite. La digestione consente invece l’innestarsi della turbolenza, una volta che sia caduto il limite mondo-io e, anzi, abitando questo stesso limite, scucendo e ricucendo la membrana della vita, sovrapponendo «ciò che mette in comunicazione il dentro e il fuori» (p. 16). Il luogo della mescalina è quest’anticamera instabile, dubbiosa, angosciante e turbolenta senza la quale non si può dare un principio vorticoso, ma con il perdurare della quale nessuna organizzazione potrebbe mai darsi. Nell’esperienza mescalinica «non ci sono vortici, c’è soltanto turbolenza, le parti dello spazio s’incontrano e s’attraversano ma non si aggregano: “migliaia di punti di colere m’invadono. Tutto un frangersi”» (p. 67), incalza Tuppini assieme a Michaux. La botta e la risposta del dialogo con Michaux disegnano un quadro in continua sovrapposizione, un’inondazione di colori e linee. Un frastuono su tela. Forze che precedentemente si ignoravano a vicenda ora schizzano nella tela scomposta dell’esperienza, ma questa esperienza ancora non produce una struttura vorticosa. Ancora, cioè, non si instaura un legame, non si riconoscono i flussi e i controflussi che rendono il vortice quell’esperienza nuova e obliqua che si avvicina e si allontana ad ogni pagina. 

In un vortice, una forza che si frange contro una superficie adeguatamente inclinata produce un vuoto creativo, un buco energetico che organizza una continuità entropica. Perché, ad esempio, «le molecole maligne di Sade e l’escrezione di Bataille sono figure vorticose» (p.32)? La polarizzazione delle forze che compongono il corpo-vortice del godimento sadiano si staglia, si distacca dalla completa turbolenza «stringendo un nodo tra godimento e scrittura». Ritornando alla metafora del mulinello idraulico: «la prigione di Sade è la pietra contro la quale il flusso del godimento va a sbattere producendo in questo modo un contro-flusso di immaginazione scrittoria. Ecco che appare la contraddizione vorticosa tra il flusso-postura del libertino sadiano, «il chimico, l’ingegnere e l’architetto del godimento» (p. 35), e il contro-flusso delle mura-pietra del carcere da cui il prigioniero tenta di snodarsi. Il vortice di godimento prodotto tra l’immaginazione di Sade e le pareti della cella è un vortice rivoluzionario. Non, però, della rivoluzione sociale, cittadina, politica, plebea, statale, ghigliottinarda, traditrice e inutile. In Sade «il vortice della rivoluzione si allontana dalla città e dalla nation per dare vita a società segrete, internazionali, eterogenee e trasversali la cui unica norma è l’affinità elettiva dei membri, la volontà di sfinirsi a vicenda stringendo i nodi aleatori del godimento» (p. 36). Il vortice è, tra le altre cose, un concetto che sorge dal problema reale della comunità. Come tessere le reti una una comunità futura? Chi, ormai, è soddisfatto di appartenere alla comunità dello stato come cittadino? Chi ancora riuscirebbe ad identificare nella macchina statale una comunità in cui ognuno può diventare la possibilità reciproca di ampliamento del godimento? Quella sadiana è una rivoluzione di razzi impazziti, di correnti del piacere; una rivoluzione-tifone nel cielo lindo della superficie di ogni esistenza, di ogni esperienza. Vortice verticale del godimento e mareggiata orizzontale della rivoluzione popolare non convivono, non si parlano, non si frequentano - non possono. 

Il sonno è una delle figure vorticose di cui abbiamo, tutti e ciascuno, una vaga e sensibile esperienza. C’è chi si ribella al sonno, non per amore del commercio con la vita diurna, bensì per sfida contro sé stesso, per dimostrarsi la propria pseudo-eroicità. Ma, in ogni caso, non c’è modo di avere le meglio: prima o poi si cade, piatti e orizzontali. Anche in questo caso una piattezza che riesce ad essere fertile, produttiva, combinatoria, incalzante, vorticosa. Seguendo Clery, Tuppini incorpora il sonno come lo spazio marginale dell’esistenza. Margine ha qui un significato preciso, deve essere cioè inteso come «quello spazio che non sta né dentro ne fuori. Se il dentro è la vita e il fuori la morte, allora il sonno è la vita adiacente alla morte, è una specie di membrana che separa la vita da ciò che sta fuori, è la parte più esterna e meno vivibile della vita» (p. 44). Il sonno è un’esperienza a margine della vita come l’avventura mescalinica o come un reale contatto simpatetico con la rivoluzione del godimento Sade. Il vortice combina queste parti marginali dell’esistenza in maniera autoregolativa, sincopata, intermittente. Come intermittente è il tempo del sonno: assopirsi, risvegliarsi, alzarsi e ricadere, confondere la linearità logica della realtà, prendere lucciole per lanterne. Ci addormentiamo in metro, in classe, durante una conferenza. Quando va bene davanti allo schermo di un computer - quale esperienza vorticosa può nascere? L’intermittenza del sonno può produrre una serie di correnti e marosi psichici che danno vita a montaggi «risceneggiati e rimontati dallo spettatore senza nessuno sforzo […] il nastro audiovisivo viene tagliuzzato e incollato a caso, lo spontaneo surrealismo della televisione (saponetta+Trump+sole+bomba) viene accentuato dalla discontinuità di un sonno elettrico» (p. 46). Quando siamo mezzo-addormentati sentiamo qualcosa di radicalmente diverso, le cose ci vengono incontro caoticamente e generano tensioni e distensioni inedite. Il vortice del sonno non è solamente vortice onirico. C’è infatti una distonia, e dunque una sensazione (p. 53), anche nel sonno - anche il sonno rende fecondo l’intrecciarsi inizialmente scombinato tra visioni, suoni, ritmi diversi. Il vortice ci mette di fronte agli occhi il fare nel suo farsi, il processo scrittorio della scrittura,la creazione, la crescita pura. Proprio perché «la crescita è ciò che di solito passa inavvertito: il prato non fa rumore perché i fili d’erba nascondono la propria physis, la crescita ama nascondersi. La virtù di un’immagine vorticosa è far balzare in primo piano il movimento della crescita» (p. 82), rivelare il lavoro della macchina esperienziale in azione. Il che può comprendere tanto l’azione scellerata dell’intossicato in cerca della penultima dose quanto quella lineare e ponderata del giocatore di scacchi che, con il Re - e con Pound -, si tuffa down in the vortex (p. 91).

Il vortice si chiude con il vuoto di un volto. C’è da capire se, al passaggio di ogni vortice che si presenti, il volto abbia una possibilità diversa dall’essere risucchiato. Ma, probabilmente, è la domanda sbagliata, la domanda di Edipo. Certo è che, una volta finito di leggere si prende aria, ci si riassetta, si alza la testa e cominciano a riapparire le distinzioni e i contorni netti e definiti delle cose - risucchiati e sputati, siamo sopravvissuti al mulinello. 

Giacomo Berengo

Giacomo Berengo si forma nella traccia della filosofia tardo e post-moderna. Scrive di una scrittura atipica e mista, privilegiando temi legati alla filosofia della voce, all’estetica del contemporaneo e all’ermeneutica del linguaggio, del testo e del suono. Parallelamente, dal contatto con diverse realtà politiche e di ricerca artistica e musicale, delinea uno schizzo d’indagine sulla potenzialità poetica della TAZ nel poliedro che squadra e unisce spazio, potere, mistica, terrorismo, suono e scrittura.

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