Il corso della theoría. Note sull’imaginale
Gianni Carchia in memoriam
Ζωγράφον… μετὰ τὸν γραμματιστὴν
Gli specchi regolano le apparizioni. Penso che una volta la forma umana si riflettesse soltanto nell’aria colpita dalla luce, nell’alone fugace del miraggio, e che, salendo una duna sabbiosa, ci potesse accadere d’incontrare la nostra stessa persona, fatta leggera e luminosa come quella dei semidei.
S. Solmi
È perché i simboli sono cose viste «in uno specchio» che la contemplazione è ‘speculazione’.
A.K. Coomaraswamy
Di una certezza
La parola sanscrita Jnana (‘conoscenza’) ha la stessa radice del greco Γνῶσις, che riaffiora nel latino co-gnoscere, e che esprime l’idea di una produzione generativa. L’essere, dunque, diviene ciò che conosce. Ma questo presuppone un’altra corrispondenza: la radice vid (da cui derivano Veda e vidya) tiene in sé il significato di ‘vedere-sapere’ (videre, οιδα). Nell’India profonda come nella Politeia platonica, quindi, vedente e veduto sono originariamente abbracciati dal Terzo, dalla certezza della Luce: «Come figlio del Bene intendo il sole, generato dal Bene analogamente a sé [ἐγέννησεν ἀνάλογον ἐαυτῷ], e il Bene ha col pensiero e le realtà intelligibili la stessa relazione che il sole intrattiene con la vista e il visibile»[1]; «Egli giunge al sole, e il sole gli si apre come il foro di un tamburo. Attraverso di esso sale più in alto»[2].
Phantasía e immaginazione
Com’è stato ricordato, il greco theoría significa «“riflessione” ma anche “solenne ambasciata”, “spettacolo”»[3]. La possibilità di riannodare filosofia e contemplazione, quindi, implica il rapporto analogico del pensiero col visibile – rapporto che informa la radice della sapienza greca e di quella orientale.
Aristotele afferma che «essendo la vista il senso per eccellenza, la fantasia [φαντασία] ha preso il nome dalla luce [φάος], poiché senza la luce non è possibile vedere»[4]. Riflettendo su questa facoltà propriamente rappresentativa dell’anima, egli ne definisce lo statuto a partire dalla nozione di phántasma, consistente nell’impressione generale di un patema nell’anima stessa[5]. A causa di tale residualità, quest’apparizione si rapporta al patema originario come un’icona al proprio modello. Già in Platone, fantasia e fantasma sono nomi dai contorni incerti, che si inseguono e sovrappongono[6]: nel Teeteto si legge che «fantasia [φαντασία] e sensazione [αἴσθησις] sono la stessa cosa»[7]. La fantasia è, quindi, a un tempo la materia con cui il fantasma, apparendo, è plasmato, e il luogo stesso di questo accadimento. Inoltre, «discorso, opinione e fantasia [διάνοια τε καὶ δόξα καὶ φαντασία]», si legge nel Sofista, «nascono nell’anima sia vere che false»[8]. Così anche Aristotele: essendo i luoghi delle rappresentazioni, e quindi delle copie, per lui le phantasíai «sono per la maggior parte false»[9], e tuttavia «non c’è pensiero senza fantasma [φαντάσματος]»[10]. Condizione del pensiero, quindi, sarebbe proprio quell’apparenza che, imprimendosi nell’anima, genera rappresentazioni prevalentemente ingannatrici.
È possibile, a questo punto, isolare due idee opposte circa il proprio del pensiero: da una parte l’indigenza, dall’altra l’amore. E contro quelle prospettive volte ad affermarne la natura tragica, occorre rivendicare, invece, il carattere placidamente erotico del pensiero[11]. È ciò che fa Plotino: lanciandosi in un’etimologia simile a quelle giocose del Cratilo[12], egli sostiene che il nome di Eros «deve la sua esistenza alla visione [ἐξ ὀράσεως]»[13]. Qual è la natura di questa visione innamorata? Se l’occhio è condannato a una fame incolmabile (dal lamento qohéletico per cui «mai l’occhio si sazia del vedere»[14] ai cuori virgiliani che «non possono saziarsi mirando»)[15], le Enneadi sono il luogo in cui questo desiderio infinito si ribalta in sazietà. Ma la trattazione plotiniana dell’immagine è un problema fra i più delicati, la cui soluzione non risiede in una rivoluzione lessicale (scandiscono le Enneadi gli stessi termini già impiegati da Platone e Aristotele: εἰδώλον, φαντασία, μίμημα, εικὼν, παράδειγμα e καλὰ αγάλματα), ma in un puro schema di pensiero che attraversa lo stesso linguaggio, vivificandolo.
L’immagine ha in Plotino un duplice statuto. Necessità inaggirabile per il pensiero, essa è il suo stesso limite. Ma oltre questo perimetro di ‘simulacri’ che inquietantemente raddoppiano il mondo[16], sta la semplicità dell’Uno, per giungere al quale le immagini sono una pur utile traccia[17], una ‘scala’ da gettare dopo la salita – per scoprire che il cammino fatto non era in realtà che un retrocedere. Come l’apparire luminoso delle cose (phantásmata) si imprime nell’anima, generando rappresentazioni svianti, così anche il Bene vi lascia le sue impronte (týpous)[18], che il nous, l’intelligenza contemplante ricorda, volgendosi alla fissità infigurabile dell’Uno. L’inanellarsi dianoetico delle rappresentazioni è così travolto dall’intuizione-visione del principio, che Plotino attinge dalla tradizione prefilosofica[19].
La theoría plotiniana è puro sguardo sul mondo e al tempo stesso memoria di ciò che è prima del mondo. Solo in questa contemplazione appare l’infissabile contatto che, distinguendo, congiunge le due sfere del sensibile e dell’intelligibile. Per l’intelligenza che nel contatto ha gettato lo sguardo, lo scandalo da cui il pensiero è agitato non è più l’invisibile, ma il visibile stesso[20]. Con questo rovesciamento, Plotino purifica il pensiero dall’infelicità del desiderio inesauribile: «Non è necessario cercare da dove essa [la Luce] appaia, poiché questo luogo non esiste; essa non viene e non va, ma appare e non appare; perciò non dobbiamo inseguirla, ma aspettarla tranquillamente finché essa non si riveli»[21]. Culmine e fulcro delle Enneadi è questa intelligente attesa di Luce, vuoto d’immagini in cui ogni immagine amorevolmente rifluisce[22].
Oriente del pensiero
… il fiore pallido e immateriale della materia.
N. Kazantzakis
Grazie agli studi del francese Henry Corbin, e all’ascolto che di essi ha offerto, in Italia, Gianni Carchia, è possibile riconoscere le profonde affinità che legano l’imaginale plotiniano alla filosofia della Luce dei ‘platonici di Persia’. Questa comunanza disegna i contorni della metafisica orientale, che non si rivolge tanto a una regione geografica, quanto alla capacità dell’immagine di ‘orientare’ il pensiero verso la sua autentica realtà: il crinale impalpabile del mundus imaginalis, che a un tempo separa e congiunge visibile e invisibile[23].
Proprio per il suo carattere di anticipazione, nella storia, di ciò che è immobile e celeste, questa regione è definita da Sohrawardī come il paese di non-dove (Nā-kojā ābād). È il luogo dell’angelo, della Luce che, invisibile all’occhio, ‘fa vedere’. Ecco l’inizio della conoscenza, manifestata nell’illuminazione (zohūr) che svela (kashf) l’essere allo sguardo. Ma come in Plotino, non si tratta di una conoscenza rappresentativa. Certo, l’essere che è illuminato-svelato diviene un fenomeno, ma la prima, fondamentale rivelazione è quella interiore: «un’illuminazione presenziale (ishrāq hodūrī) che l’anima, in quanto essere di luce, fa sorgere sull’oggetto; essa se lo rende presente rendendosi presente a se stessa»[24]. Cosa avviene con questo presentarsi dell’anima a sé? Nel silenzio di questo riflusso, le stesse percezioni sensibili si fanno diafane, e si profila lo spazio intermedio originario, distante tanto dal mondo sensibile che da quello intelligibile. Questo interstizio tra i due ordini, l’intervallo tra la Luce pura e gli esseri sensibili, in Sohravardī non è già il mondo delle idee, ma quello delle forme-immagini sospese, che «non sono immanenti a un sostrato materiale… ma... possiedono dei “luoghi epifanici”… in cui si manifestano, come l’immagine “sospesa” in uno specchio»[25].
Ma queste forme sottili sono anche autonome dal mondo sensibile. Ecco il punto centrale: indicando le idee platoniche (Mothol Iflātūnīya), l’immaginazione orienta-richiama il mistico dal suo esilio nell’universo della materia-tenebra verso l’Oriente di Luce, ma il compimento di questo evento reale presuppone la realtà del mundus imaginalis stesso[26]. Per questo la paradossale posizione dell’imaginale, ricorda Carchia, «non rappresenta affatto… proprio in forza del suo originario carattere reale, una sorta di mediazione fra quei due estremi… La forza dell’imaginale non è mediale, ma originaria»[27]. Ecco la realtà dell’immaginazione, il punto inesteso di una clessidra dove, anziché convergere e addensarsi, i due ordini speculari co-spirano, e vengono incessantemente emanati. Qui, in questa sottilissima contrazione che è l’imaginale, il corpo è spirituale, e la terra celeste[28]. Il senso di espressioni come ‘sole di mezzanotte’ o ‘luce nera’ non sta, quindi, in una coincidentia oppositorum, ma nel fatto che la Luce che fa vedere – vuoto d’immagini proprio dell’immaginazione pura – non potrà mai reificarsi in un visibile.
Diametralmente opposta all’immaginazione orientale è la tradizione occidentale del pensiero rappresentativo, schiavo dei phantasmata che, assolutizzati, non costituiscono più la soglia, l’accesso all’oggetto amato, ma ne prendono il posto. È ciò che avviene in Dante, e che dopo di lui si ripete nei secoli del pensiero (non solo cristiano) occidentale[29]. Questo retaggio dell’amore fantasmatico è stato ampiamente descritto da Giorgio Agamben in studi ormai celebri. Il desiderio, egli scrive, «diventa, nella sua essenza, insoddisfacibile, mentre il fantasma, che era il mediatore e garante dell’appropriabilità dell’oggetto del desiderio (era, cioè, quel che permetteva di farne l’esperienza) diventa ora la cifra stessa della sua inappropriabilità (della sua “inesperibilità”). Per questo, in Sade… l’io desiderante, acceso dal fantasma… trova davanti a sé solo un corpo, un objectum che può soltanto consumare e distruggere senza mai soddisfarsi, perché in esso il fantasma sfugge e si nasconde all’infinito»[30]. Ecco l’arco teso che da Dante conduce alla Nouvelle Justine, e oltre. Così, il pensiero occidentale si costituisce come il terreno in cui la rappresentatività della phantasía si oppone alla purezza dell’imaginale.
Luce e ritmo
e tu non hai più occhi, solo una spessa membrana scossa da un tamburo lontano.
L. Chiuchiù
Solo ora è possibile tornare a Platone. Se il problema dell’immaginazione coincide, come si è visto, con quello del rapporto tra idea e mondo sensibile, diventano centrali le nozioni di partecipazione (methexis) e imitazione (mimesis), affrontate da Carchia nelle ultime, densissime pagine di Estetica ed erotica come l’esigenza decisiva della filosofia. Seguendo questa traccia, l’erotica platonica appare come un rifluire della mente, mediante la reminescenza, verso l’intelligibile, senza che il mimetismo formalizzante del logos intervenga mediando alcunché. Ecco la purezza dell’immaginazione antirappresentativa, che questa erotica metessica può indicare proprio perché, in essa, «la bellezza si definisce a partire dall’Eros, e non viceversa»[31]. Solo a questa condizione il bello può caratterizzarsi come non-mimetico. Decisivo, a questo punto, è comprendere che in Platone non c’è alcuna simmetria o proporzione tra intelligibile e sensibile[32]; se vi fosse, il loro rapporto sarebbe rappresentabile, appunto, mimeticamente. Ma il mondo sensibile non è copia-simulacro di quello intelligibile, e quest’asimmetria tra idea e mondo forma con la metessi un tutt’uno. Analogia vi è, semmai, tra vedente e veduto, ma la Luce che rende lo sguardo possibile è l’agathón, l’originaria ‘eccedenza’[33] che regola il rapporto di sensibile e intelligibile. È quel «luogo neutro e scentrato a partire dal quale solo è possibile l’incontro fra la forma e la materia»[34].
Ma questo sfiorarsi di intelligibile (forma) e sensibile (materia) ha luogo nel vuoto rappresentativo dell’immaginazione, nel punto ritmico in cui unità e molteplicità si raccolgono, secondo il battito delle loro contrazioni. Ecco che la contemplazione riscatta la stessa figuratività della mimesi: la teoria diviene danza. In essa, infatti, vi sono «due elementi distinti, quello mimetico- rappresentativo e quello euritmico… Che i due momenti derivino da un unico plesso originario, in cui la mimesi era imitazione o meglio esecuzione di ritmi elementari, è… l’ipotesi più verosimile sul significato della danza come azione sacrale»[35]. Con le sue figure (schemata), il danzatore conduce la mimesi all’annullamento della rappresentazione stessa. Il corpo pratica l’anamnesi dell’infigurabile ritmo originario, dell’uno-due – dove l’uno è il due. Per questo il Terzo (la Luce) indicato da Platone corrisponde al sole vedico, che si apre come un foro di tamburo: accedere al «dorso del cielo»[36] è possibile solo a chi sia divenuto questo stesso ritmo.
Nel Sarabhanga Jātaka il Bodhisattva è detto custode della luce (jotipāla) e centratore di bersagli (akkhaṇa-vedhin, dove vedhin, costruito sulla radice vid, sta per ‘penetrante’). Remota metamorfosi di ciò che altri chiamarono Apollo, egli è colui che compie l’infilatura del cerchio (cakka-viddham): dal centro di un’arena, scocca una freccia in modo da farle trafiggere (vijjhitvā) quattro alberi piantati agli angoli del campo, passando infine una seconda volta attraverso il primo di essi, per tornare, dopo aver concluso il volo, nella sua mano. Alla freccia è legato un filo scarlatto che, una volta compiuto il percorso, lascia apparire il disegno del pensiero, lo schema dell’illuminazione. Il Terzo è precisamente questo: un’arena purificata dall’infilatura del cerchio. È lo spazio, l’intorno del soggetto che con lui torna ad essere Luce, confondendo in essa pensiero e materia.
Questo punto ritmico che è l’imaginale, il vuoto che in sé ogni forma discioglie, dove la mente, lo spazio e la Luce coincidono, è la χώρα: il ricettacolo che accoglie la mente e che a un tempo è la mente stessa, la cui visione, come per la Luce Gloriosa iranica, confonde sogno e veglia:
a questo essere [la χώρα] noi guardiamo come in sogno»[37]. Lo spazio-ricettacolo si costituisce come la possibilità stessa di ogni forma – è il Bene, l’originaria, infigurabile eccedenza da cui la molteplicità degli enti è emanata. È l’a priori che ‘permette’ il mondo sensibile. È la sua verità, la sua realtà profonda. E solo «la perdita di questo mundus imaginalis può far credere che “smaterializzare” le forme significhi abolirle: tutt’altro! Il mondo dei “corpi sottili” racchiude il senso vero della non- materialità, in quanto restituisce forme e figure alla loro purezza archetipica: che cosa diventerebbe infatti un mondo senza volto, senza viso, cioè senza sguardo?[38]
Come testimonia la grande mistica (da Plotino allo Pseudo-Dionigi, da Ibn ‘Arabī e Sohravardī a Eckhart e Böhme), nell’interiorità purificata dell’anima[39] sta la tenebra divina che è Luce accecante, nel cui flusso ritmico di ipostasi-angeli-idee l’uomo contempla come in uno specchio le permutazioni orizzontali (dove il mondo si addensa e contrae nel nous, e la mente lambisce l’estensione dell’intero cosmo) e verticali (dove il cielo e la terra, l’invisibile e il visibile, si riflettono). L’immaginazione diviene così facoltà a un tempo attiva e passiva, per questo il suo organo è il cuore[40]. Questo flusso generativo, questo ritmo originario (sistole e diastole) è il paese di non-dove a cui l’excursus della contemplazione approda.
Pace senza occhi
L’occhio della fine guarda alla fine dell’occhio. Come afferma il Corpus Dionysianum, non vi è più nulla da vedere nel cuore del divino, nella ‘luminosissima caligine’ – puro effluvio di Luce, dalla Luce e nella Luce – che «con abbondanza riempie [ὑπερπληροῦντα], nella completa intangibilità e invisibilità [εν τῷ πάμπαν ἀναφεῖ καὶ ἀοράτῳ], di splendori meravigliosi le intelligenze prive di occhi [τοὺς ἀνομμάτους νόας]»[41]. Decretando la salvifica soppressione dell’occhio[42], questo vaticinio apocrifo espone il venir meno di ogni discontinuità tra un ‘dentro’ e un ‘fuori’. Tipico schema neoplatonico: sopra la conoscenza sta la non-conoscenza, il rivolgersi (epistrophé) del nous a quell’Uno di cui non è assurdo supporre che «non conosca se stesso; nulla infatti ha da apprendere [μάθῃ] in sé, essendo Uno»[43].
Ma sempre l’estasi implica la necessità del ritorno, di quell’ombra che insegue la pace del continuo, minacciando l’occhio con l’eruzione, in esso, del molteplice. Ed ecco: la fine del pensiero cancella anche lo spettro di questa paura. Alla precisione dello sguardo che, pezzo a pezzo, pretende di analizzare (ἀνάλύω: ‘abolire dissolvendo’) il mondo intero, si oppone la noncuranza delle «parole di ogni giorno», il cui valore è massimamente vicino «a qualsiasi cosa. Invisibili, che non mostrano nulla, sempre al di là di se stesse, sempre dalla parte delle cose, una pura coscienza passa attraverso di loro e così discretamente che a volte può fallire... Eppure, la comprensione continua ad essere soddisfatta, sembra addirittura che raggiunga il suo punto di perfezione»[44]. Nulla è più ricco di tale indigenza, in cui, di nuovo, la fame dell’occhio incolmabile si rovescia, gratuitamente, in sazietà.
Non è infatti un caso che la stessa esigenza formulata da Blanchot in queste righe sia stata espressa proprio da Plotino, secondo il quale l’irresistibile trasporto verso la contemplazione (θεωρία) avviene «in misura maggiore per l’azione coatta, perché serve a esternare la contemplazione, e in misura minore per l’azione volontaria, che pure si genera per amore della contemplazione»[45]. La noncuranza è un’estasi mantenuta.
Estranea ad ogni rigida istituzione, questa pace non smette di brillare nella pratica anarchica della prosa. In uno dei suoi Vecchi foglietti Sergio Solmi elenca tre forme elementari di pensiero: un pensiero seduto, che riflette lo stato di contemplazione tipico dell’uomo antico, un pensiero in piedi, corrispondente all’affaccendarsi dell’uomo moderno[46], e, infine, un pensiero sdraiato, l’unico che «può farci scoprire il rovescio delle cose e le contraddizioni dell’agire… [e] consentirci di giungere alla suprema verità e giustizia dell’indifferenza, dell’astensione»[47]– e che forse, a questo punto, non è azzardato intendere come rigenerazione, assolutizzazione dell’antico pensiero seduto. Sdraiandosi, infatti, il pensiero «contorna con una lenta mano le anfrattuosità del reale, sorprende con la coda dell’occhiolevariazionidellaluceedell’ombrachelecangianoeledeformano…nell’attrazione e nel rifiuto contemporanei che lo paralizzano apprende… la vana oggettività delle cose»[48]. Tale consapevolezza coincide con la θεωρία, quella felicità diafana, né mitica né logica, che non può esser meta da raggiungere, ma solo gratuita riscoperta. Essa è il ritmo originario del pensiero, che in questo flusso si sente affondare e riemergere a un tempo, dove ogni ferita è già da sempre ricucita, e umano e divino si disciolgono costantemente l’uno nell’altro. Come nelle mattinate primaverili, quando «il mondo è assente, e la trascendenza coincide col nostro profilo»[49].
[1] Platone, Resp., 508 b-508 c.
[2] Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, V, 10, 1.
[3] M. De Angelis, Poesia e destino (1982), nuova ed. ampliata, Milano 2019, p. 39. L’autore si riferisce alla figura prefilosofica del teoro (θεωρός), l’ambasciatore inviato ad assistere a cerimonie religiose o a consultare l’oracolo del dio, ma anche ad invitare gli stranieri a festeggiamenti solenni nella propria città.
[4] Aristotele, De an., 429 a.
[5] Cfr. Id., De mem., 450 a 10-11: τὸ φάντασμα τῆς κοινῆς αἰσθήσεως πάθος ἐστίν.
[6] Cfr., ad esempio, Theaet., 161 e («esaminare e cercare di confutare le rappresentazioni e le opinioni [φαντασίας τε καὶ δόξας] gli uni degli altri»), Soph., 223 c («anche nelle considerazioni svolte in precedenza viene offerta una immagine [φάντασμα], non di quello che ora noi diciamo, ma di un genere diverso»), Parm., 165 a («una parvenza di uguaglianza [φάντασμα ἰσότητος]») e Tim., 52 c («all’immagine [εἰκόνι]… non appartiene neppure l’essere per cui fu generata, ma si muove sempre come un riflesso [φάντασμα] di qualcos’altro»).
[7] Id., Theaet., 152 c.
[8] Id., Soph., 263 d. E si ricordi che, poco prima, Platone relega l’intera sfera della rappresentazione nel dominio del falso, affermando che «se c’è l’inganno, è inevitabile che tutte le cose siano ormai piene di raffigurazioni, di immagini, di fantasia [εἰδώλων τε καὶ εἱκόνων ἤδη καὶ φαντασίας]» (260 c).
[9] Aristotele, De an., 428 a 12.
[10] Id., De mem., 450 a 1.
[11] Cfr. G. Carchia, L’amore del pensiero, Macerata 2000, p. 37: «L’atto inaugurale del pensiero… sta nel sentimento di una forza che ci urta e ci trascende… Si tratta di uno stordimento fecondo, del morso di una vipera che ci instilla un pharmakos benefico: ciò imparenta l’Eros, in quanto struttura di una “dipendenza emancipante”, secondo l’eccellente formulazione di Gerhard Krueger, alla meraviglia, allo stupore… Primo e fondamentale contrassegno del rapporto fra l’eros e il pensare è, dunque, il rapimento, l’essere fuori di sé, caratteristici della meraviglia… Da questa estasi ( ek-stasis), che è umiliazione, penia, nasce il poros, la fecondità, l’inquietudine del pensare».
[12] Sulla serietà dello scherzo tipica nei dialoghi platonici, è illuminante quanto Plotino afferma nella trattazione Sulla natura, la contemplazione e l’uno: «Prima di iniziare seriamente l’indagine, potremmo dire, scherzando, che non c’è essere che non tenda alla contemplazione e non miri a quest’obiettivo [Пαίζοντες δὴ τὴν πρώτην πρὶν ἐπιχειρεῖ σπουδάζειν εἰ λέγοιμεν πάντα θεωρίας ἐφίεσθαι καὶ εἰς τέλος τοῦτο βλέμειν]» (Enn., III, 8, 1, 1-5). L’uso insistente dei termini παίζειν e σπουδάζειν è ciò che intreccia, nel discorso, il giocoso e il serio. Poco oltre, infatti, si legge: «Non è forse vero, del resto, che anche ora, in questo gioco, noi stiamo contemplando? Non solo noi, ma tutti coloro che scherzano fanno così, oppure aspirano proprio a questo coi loro scherzi. Vi è anzi la possibilità che se uno, giovane o adulto che sia, scherzi o faccia sul serio, faccia una cosa o l’altra in virtù della contemplazione» (ivi, III, 8, 1, 10-15).
[13] Ivi, III, 5, 3.
[14] Eccle., 1, 8.
[15] Virgilio, Aen, VIII, 265.
[16] Il celebre bando platonico dell’arte si scatena non perché essa, dipingendolo, distorca il volto del cosmo, ma, all’opposto, perché perfetta è l’imitazione che ne offre. Da Platone a Benjamin, l’arte occidentale si afferma come un turbine che trascina l’originale nel gorgo proliferante delle copie – finché originale e copia non appariranno per sempre indecidibili. Ma due sono i livelli dell’illusionismo estetico: questo vortice che scioglie nell’indistinzione il primato della cosa sull’immagine non è, appunto, che un’illusione. L’inganno che Platone smaschera è questa confusione di ‘trucco’ e realtà ontologica. Inoltre, ripercorrendo la storia del termine agálma, è possibile rintracciare ascendenze e discendenze del giudizio platonico verso le ‘immagini-simulacri’. Afferma Eraclito: «Si purificano facendosi lordi [μιανόμενοι] d’altro sangue, come se uno messo il piede nella mota con la mota si volesse ripulire. Ma balordo [μαίνεσθαι] egli parrebbe ad una persona che s’avvedesse che così agisce. E poi anche rivolgono preghiere a questi simulacri [ἀγάλμασι], come se uno stesse con edifici a chiacchiera, non conoscendo egli affatto dèi né eroi chi sono essi davvero» (DK, fr. 5). È noto che nel terzo volume, postumo, della Sapienza greca (Milano 1980) Giorgio Colli abbia omesso la seconda frase (μαίνεσθαι… ποιέοντα); tuttavia, egli scrive: «μαιαινόμενος – μαινόμενος: artificio del falsario» (p. 140). Ecco il gioco semantico: l’errore si espande, silenzioso come una malattia, e l’esser folle – l’annebbiamento di chi scambia il falso per l’autentico – significa essere contaminato dall’errore, quel male che propagandosi nell’organismo-pólis, aumenta la propria potenza illusionistica, indebolendo le facoltà umane. Nella sua seconda dissertazione, Massimo di Tiro si interroga sulla legittimità delle immagini attribuite agli dèi. Si legge: «Io credo che come il discorso orale [φωνὰς λόγω] non ha strutturalmente bisogno di nessun carattere fenicio o ionico o attico o assiro o egizio, ma fu la debolezza umana [ανθρωπίνη ἀσθένεια] a escogitare questi segni [σημεῖα], riponendo nei quali la propria debolezza essa grazie a loro rinfresca la memoria, così la natura del divino di certo non abbisogna né di immagini né di templi [οὐδὲν ἀγαλμάτων οὐδὲ ιδρυμάτων], ma fu la natura umana, poiché è del tutto debole e differente dal divino quanto il cielo lo è dalla terra [la stessa metafora, di chiara origine semitica, ricorre in Is., 55, 9], a escogitare questi segni [σημεῖα], nei quali riporrà i nomi degli dèi e la loro fama. In modo analogo, dunque, coloro che possiedono una solida memoria e sono in grado di raggiungere direttamente il divino, innalzandosi con l’anima verso il cielo, non hanno bisogno di immagini» ( Diss., II, 2, 30-40).
[17] Per un esemplare e rigoroso studio sull’immagine nelle Enneadi, cfr. R. Calasso, Il Cacciatore Celeste, Milano 2016, pp. 305-306: «La conoscenza suprema… non è fatta di parole articolate in proposizioni, ma soltanto di “belle immagini”, ovvero “simulacri”, “kalà agálmata”. Questo è il discrimine che permette a Plotino di affermare la subordinazione del linguaggio rispetto alle immagini… Se per “immagini” vanno intese non “quelle disegnate, ma quelle che sono”. Ma che cosa sono le immagini “che sono”? Quelle che si trovano “nell’anima di un uomo sapiente”. Immagini mentali. Questo è – quaggiù – ciò che più somiglia a ciò che lassù… è la conoscenza che non è “altra in altro”, ma “è in ciò che è” […]. A questo punto […] i kalà agálmata diventano l’elemento stesso della conoscenza suprema».
[18] Cfr. Plotino, op. cit., I, 2, 4, 23-25.
[19] Sulla mente greca che, intuendo (noein), ‘vede’, cfr. G. Colli, Corso 1966-1967: Parmenide, in Id., Gorgia e Parmenide. Lezioni 1965-1967, Milano 2003, p. 153: «Noos, o nous, è la facoltà immediata di conoscere – in Omero νοεῖν significa “vedere”. In Parmenide generalmente νοεῖν si traduce “pensare”, ma dovrebbe piuttosto essere tradotto con “intuire”; noos è più astratto della facoltà sensibile della vista, ma è immediatamente intuitivo, non è la facoltà del pensiero astratto».
[20] Cfr. Plotino, op. cit., V, 5, 11, 5-10: «Non cercare l’Uno con occhi mortali, come dice il discorso [λόγος]; e neanche credere di poterlo vedere come pretenderebbe chi sostiene che tutte le cose siano sensibili, negando ciò che vale più di ogni cosa. Le cose che si credono maggiormente esistenti, in realtà non esistono affatto».
[21] Ivi, V, 5, 8, 1-5.
[22] Così anche Benjamin, che in sogno esperisce una «nostalgia beata, che ha già varcato la soglia dell’immagine e del possesso e che conosce solo più la forza del nome… che è, senza immagine, il rifugio di tutte le immagini» (Kurze Schatten I [1929], tr. it. in Id., Opere Complete, III, Torino 2010, p. 281). Il nome a cui Benjamin si riferisce – ispirato dalla Qabbalah studiata in gioventù – è quello di Dio: infigurabile perché ogni forma abbraccia, ineffabile perché ogni voce sussume («Iehowa non è altro che la riunione in un insieme di tutte le vocali: iod, he, wau, he sono quattro lettere e si chiamano tetragramma», N. Cusano, Dies Sanctificatus). In questo senso, colpisce l’affinità di Benjamin con Florenskij, che definisce le icone russe come quei contorni della visione che «pronunciano in linee e colori – trascritto coi colori – il Nome di Dio» (Ikonostas [1921-1922], tr. it., Milano 1977, p. 64), rendendo così visibile il mondo celeste: «Lì senza immagini [l’anima] si nutre della contemplazione dell’esistenza del mondo celeste, tocca gli eterni noumeni delle cose e, impregnata, carica di conoscenza ritorna al mondo terreno» (p. 34).
[23] La stessa idea attraversa e permea le speculazioni del grande Oriente cristiano, dai cosiddetti ‘Padri Siri’ al pensiero di Florenskij, ossessivamente concentrato sulla realtà dell’imaginale; cfr. op. cit., p. 31: «in questo mondo capovolto, in questo mondo ontologicamente riflesso in uno specchio, non riconosciamo il piano immaginario, anche se è piuttosto immaginario questo nostro mondo per coloro che si sono capovolti su se stessi, che si sono rovesciati, giungendo al centro del mondo spirituale che è più autenticamente reale di loro stessi».
[24] H. Corbin, Histoire de la philosophie islamique (1964), tr. it., Milano 1973, p. 218.
[25] Ibidem.
[26] È interessante che la visione, in cui questo richiamo si consuma, sia propria del mondo onirico. Dal sogno di Giacobbe (Gen., 28, 10-22) in avanti, la notte è il luogo della teofania. Già la tradizione ebraica dell’ Aggadah parla delle quattro notti della salvezza (quella della creazione, quella della fede di Abramo, quella della fuga dall’Egitto, e quella futura, della Pasqua in cui il Messia tornerà). E ancora nei vangeli notte è «quando nessuno può operare» ( Gv., 9, 4), il tempo in cui Dio spalanca all’uomo l’impossibile: la risurrezione dai morti. Nell’Islam, la notte è il tempo dell’illuminazione. Corbin scrive: «La superiorità del sogno sui dati positivi della veglia è proprio qui: permettere, o piuttosto reclamare un’interpretazione che vada al di là dei dati, perché quei dati significano altro rispetto a ciò che appare. Essi manifestano […]. L’immaginazione resta sempre il motore di un ta’wīl [interpretazione] che è ascensione continua dell’anima» (L’imagination créatrice dans le sufisme d’Ibn ‘Arabī [1958, 1977], tr. it., Roma-Bari 2005, p. 182). Inoltre, il sogno «è intermediario fra lo stato di “veglia” reale, cioè in senso mistico, e la coscienza di veglia nel senso profano e corrente del termine» (p. 190). Lo stesso viaggio notturno (mi‘raǧ) di Maometto è un problema per gli esegeti di Coran., 17, 60: non è chiaro se sia avvenuto in sogno o nello stato di veglia. Sull’interpretazione dei sogni nel mondo islamico, e il timbro profetico di questa pratica, è inestimabile il libro tramandato da Muḥammad Ibn Sīrīn, il Ta‘bīr al-ru’yā (tr. it., Il libro del sogno veritiero, Torino 1992). Gli scambi sotterranei che il sogno instaura con la realtà, in Oriente come in Occidente, sono stati indagati da W. Doniger, in Dreams, Illusion and other Realities (1984), tr. it., Milano 2005.
[27] G. Carchia, Estetica ed erotica. Saggio sull’immaginazione (1981), in Id., Immagine e verità. Studi sulla tradizione classica, Roma, 2003, pp. 85-86.
[28] Cfr. H. Corbin, Corps spirituel et Terre céleste. De l’Iran mazdéen à l’Iran shī’ite (1960, 1979), tr. it., Milano 1986
[29] Soffermandosi sullo spiritus phantasticus di Dante, Carchia spiega come la sua pneumo-fantasmologia consista in «una concezione dell’amore al cui centro si colloca… l’idea dell’impossibilità per l’amante… di raggiunger mai l’amato» ( op. cit., p. 87). Ed è proprio qui che esplode l’aut-aut tra il canone orientale dell’icona e il realismo occidentale della prospettiva: «Presupposto del realismo è… la compiuta scissione fra il reale ed uno spazio rappresentativo che lo riesegua entro suoi modi specifici e peculiari… Che la tradizione orientale abbia perlopiù mantenuto fermo il divieto d’immagine e sviluppato un’arte che nella sua essenza è, non già decorativa, come comunemente si pensa, bensì anti- rappresentativa, ciò dipende precisamente dal fatto che il suo imaginale ha di per sé carattere ontologico. Esso non ha bisogno… di compensare su di un’altra scena… una natura debole e fantasmatica, il proprio vuoto ontologico» ( ivi, p. 89). Su questo tema, cfr. le lucide riflessioni di F. Cuniberto, Il cedro e la palma. Esercizi di metafisica, Milano 2009, pp. 73-74: «Quanto più la figura si approfondisce e si perfeziona, tanto più si emancipa dal codice simbolico dell’arte cristiana [tradizionale], come se questa fosse refrattaria per natura a una vasta e articolata rappresentazione figurale… nel momento in cui vorrebbe celebrare le verità della fede, l’arte cristiana [moderna] le soffoca e addirittura le uccide, trasformando in spettacolo… il processo metafisico-realizzativo».
[30] G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia (1978), nuova ed. accresciuta, Torino 2001, pp. 20-21.
[31] G. Carchia, op. cit., p. 136. Poco oltre, si legge: «Lo statuto dell’anamnesi, che non è né vuoto informe, né ossificata realtà, è lo stesso che attiene a suo fratello, l’Eros. Esso non è semplicemente impulso, ma un’essenza semi-divina» (p. 137).
[32] Cfr. E. Melandri, op. cit., § 128, pp. 661-662: «È dunque possibile un’analisi logica della relazione… di mimesi, di metessi o più in generale di esemplificazione di un modello… questa relazione non è di pura e semplice somiglianza. La somiglianza è, fra l’altro, una relazione simmetrica. Se ‘a è simile a b’, ne consegue che ‘b è simile ad a’. Ma se ‘a imita A’, ‘a partecipa di A’ o più in generale ‘a è un caso di esemplificazione di A’, con ciò non è affatto detto che valga anche la reciproca; anzi, se facciamo attenzione all’uso linguistico… dobbiamo dire che detta elazione esclude ogni reciprocità… Una proporzione matematica è sempre leggibile nei due sensi; mimesi, metessi ed esemplificazione, no».
[33] Come nel nome di Agamennone, il prefisso αγα- indica il troppo, l’oltre misura: per questo Platone parla del Bene come di ciò che eccede.
[34] G. Carchia, op. cit., p. 142.
[35] F. Cuniberto, Danza, teorie della, in G. Carchia e P. D’Angelo [a c. di], Dizionario di estetica, Roma-Bari 1999, p. 76. Cfr. gli studi di M. Schneider, dal celebre volume Singende Steine. Rhythmus-Studien an drei katalanischen Kreuzgänger romanischen Stils (1955), tr. it., Milano 1976, a saggi come Die musikalischen Grundlagen der Sphärenharmonie (1960), Was ist Rhythmus? Über die natürlichen rhythmischen Fähigkeiten des Menschen (1965), tr. it. in Id., Il significato della musica, Milano 2007, e La simbologia della danza, in «Conoscenza religiosa», Firenze 1969, n. 1.
[36] Platone, Phaedr., 247 b-c.
[37] Id., Tim., 52 b. Il tema dell’indecidibilità tra il sogno e la veglia è tra i più inquietanti in Platone. Alla domanda di Socrate, che chiede una prova del fatto che si sia svegli e non dormienti, Teeteto ammutolisce. E Socrate riprende: «Tu vedi, dunque, che non è difficile avere dubbi in proposito, quando è possibile dubitare persino se si tratta di veglia o di sogno» (Theaet., 58 b-d).
[38] H. Corbin, La configuration du Temple de la Ka‘ba comme secret de la vie spirituelle (1965), tr. it. in Id., L’immagine del tempio, Milano 2010, p. 68.
[39] Analogamente alla mistica di Ibn ‘Arabī, in ambiente ebraico Moshe Idel parla della visualizzazione dei colori delle Sefirot come di una ‘immaginazione creatrice’ (cfr. Kabbalah. New perspectives, [1988, 2010], tr. it., Milano 2010, pp. 199-212)! Cfr., inoltre, A. Arikha, De la prière à la peinture (1985), in Id., Peinture et regard. Écrits sur l’art 1965-2009 (1991, 2011), tr. it., Vicenza 2016: «Il vedere non è dunque considerato come fonte del sapere. Ed è ad occhi chiusi che il colore è immaginato – non visto – da Rabbi Moshé ben Shem Tov de Leon, l’autore dello Zohar» (p. 272). Continuamente Arikha sottolinea la parentela di pittura e preghiera alla luce delle ‘tonalità invisibili’ che solo nella contemplazione ‘ad occhi chiusi’ sono accessibili, al mistico come al pittore.
[40] Rispetto al ‘cuore’ come sede della divina sapienza – la Sophia della Chiesa ortodossa, l’angelo dei mistici dell’Iran – e organo della Luce che occulta il manifesto ed espone il celato, la teosofia di Jakob Böhme rappresenta un autentico hapax nell’Occidente moderno: il fuoco vivente di Dio, che salva i giusti e divora i malvagi, è per Böhme la ‘radice della Luce’, che solo per la coscienza rifluita con serietà (Ernst) nel proprio cuore (Herz) sarà accessibile. Sulle implicazioni ‘realizzative’ della metafisica del teutonicus, cfr. F. Cuniberto, Jakob Böhme, Brescia 2000.
[41] Pseudo-Dionigi, Theologia mystica, I, 1, 997 b.
[42] Si rammenti la figura indiana del sapiente che conobbe l’immortalità guardando dentro, e non fuori, di sé: «Verso l’esterno [il dio] nato da se stesso ha praticato delle aperture nel corpo; ecco perché si vede verso l’esterno, e non verso di sé. Un saggio che cercava l’immortalità ha guardato dentro di sé, con occhi rovesciati» (Katha Upaniṣad, IV, 1).
[43] Plotino, op. cit., V, 6, 6, 31.
[44] M. Blanchot, La part du feu, Paris 1949, pp. 80-81.
[45] Plotino, op. cit., III, 8, 1, 15-18.
[46] «La verità come azione; la verità come estenuazione», recita il lapidario frammento successivo (S. Solmi, Vecchi foglietti [1945-1955], in Id., Meditazioni sullo Scorpione e altre prose, Milano 1972, p. 90).
[47] Ivi, p. 89.
[48] Ibidem.
[49] Ivi, p. 90.