I predatori, di Pietro Castellitto – La pasta alla norma, il vitello tonnato e il cadavere di Nietzsche
È mattina presto, il mare di Ostia è calmo. Un uomo bussa a casa di una signora: le venderà un orologio. È sempre mattina presto quando, qualche giorno dopo, un giovane assistente di filosofia verrà lasciato fuori dal gruppo scelto per la riesumazione del corpo di Nietzsche. Due torti subiti. Due famiglie apparentemente incompatibili: i Pavone e i Vismara. Borghese e intellettuale la prima, proletaria e fascista la seconda. Nuclei opposti che condividono la stessa giungla, Roma. Un banale incidente farà collidere quei due poli. E la follia di un ragazzo di 25 anni scoprirà le carte per rivelare che tutti hanno un segreto e nessuno è ciò che sembra. E che siamo tutti predatori.
I predatori, diretto da Pietro Castellitto, Italia, 2020, 109’
Pasta alla norma, vitello tonnato
Due contenitori di alluminio, di quelli abitualmente impiegati per la ristorazione d’asporto. Il primo contiene una porzione di pasta alla norma, il secondo del vitello tonnato. Come distinguerne il contenuto se, esteriormente, appaiono perfettamente identici? Basterebbe scrivere «pasta» su quello della pasta. Invece Federico Pavone (Pietro Castellitto) compie il gesto più ridondante possibile: scrive «PASTA ALLA NORMA» su quello contenente la pasta alla norma, e «VITELLO TONNATO» su quello contenente, sorpresa delle sorprese, il vitello tonnato. In stampatello maiuscolo, con un pennarello, a caratteri cubitali. Deve consegnare il pranzo al professore di filosofia per cui lavora come assistente, Nicola Fiorillo (Nando Paone), eppure si comporta come se dovesse relazionarsi con un completo deficiente. È d’altronde lo stesso Fiorillo a fargli notare l’inutile precisione del suo gesto che, per la sua eccessività, assume i caratteri.
È proprio questo suo gesto, apparentemente innocuo e tutt’altro che foriero di conseguenze, a far sì che Federico venga escluso dall’importantissima iniziativa del suddetto professore: la riesumazione del colui che ha annunciato la morte di Dio. «Perché Nietzsche soffriva di continue crisi di vomito? Perché Nietzsche aveva terribili mal di testa? E infine, perché Nietzsche è diventato pazzo? […] Questi sono soltanto alcuni dei dubbi che verranno definitivamente risolti con la riesumazione». Nietzsche, del tutto insignificante come filosofo, è ridotto a puro corpo, escremento storico da analizzare con cura in ogni suo orifizio, affinché qualsiasi dubbio riguardo le sue condizioni cliniche venga, definitivamente, fugato. Era d’altronde lo stesso Friedrich a dichiarare l’urgenza di «incarnare in sé stessi il sapere»,1 e Federico è il primo a condividere un’ossessione fisiologica per il suo leggendario cadavere. Ha sviluppato, paranoicamente, una profonda idiosincrasia per ogni forma di studio che passi per il medium della letteratura, che ormai sente -dopo quella che supponiamo essere una lunga e frustrante carriera accademica- come insincero, esiziale. Di fronte al dono di Vita di Nietzsche (di Paul Janz Curt) da parte di Fiorillo, misero contentino per averlo escluso dal progetto della riesumazione (e che, con ogni probabilità, il giovane ha già letto), Federico esplode, dichiarando tutta la sua insofferenza: «Io non voglio più leggere in vita mia! Io non voglio più leggerlo, io voglio vederlo [corsivo del redattore]. Io non voglio più leggere in vita mia.
Scaglia qualsiasi libro gli si pari davanti a terra, diviene improvvisamente violento, volgare. Se strategia adottata per distinguere le confezioni di cibo d’asporto erano il frutto esacerbato di una iper-educazione, volta alla più pedissequa e puntigliosa delle catalogazioni, l’impeto rabbioso in cui il ragazzo esplode ne è l’assoluta e radicale negazione. Sotto un involucro di timidezza e rassicurante goffaggine, che si assottiglia fino a rasentare la dissoluzione, Federico cova una violenza incommensurabile che aspetta solo il momento propizio per detonare in tutta la sua potenza.
A essere scisso bidimensionalmente non è solo Federico, ma lo stesso universo che Castellitto si impegna a descrivere e incarnare con I predatori, il suo brillante esordio alla regia. Da una parte i borghesi altolocati, i radical-chic detentori del potere mediatico (impiegato in un’oroborica fellatio autorappresentativa),2 perfettamente inseriti in una società di cui ricoprono i ruoli più ambiti. Tali i membri della famiglia Pavone, di cui Federico è il giovane rampollo, figlio di Pierpaolo Pavone (Massimo Popolizio), prestigioso chirurgo, e di Ludovica Pensa (Manuela Mandracchia), regista cinematografica. Dall’altra parte i Vismara, che della geografia sociale occupano i margini sbiaditi, di cui si dà per scontata l’obliterazione. Claudio Vismara (Giorgio Montanini), il padre, è un fascista che, per arrotondare, gestisce un traffico illecito di armi tanto losco quanto improvvisato. Laddove la differenza di status crea tra i due nuclei familiari un divario apparentemente incolmabile, a unirli è la pratica della violenza. Se Claudio educa il figlio all’uso delle armi fin dalla tenera età, facendone un killer professionista, non bisogna sottovalutare il fatto che anche i Pavone e i loro amici paiono dilettarsi a inscenare episodi cruenti, pur ammantati dal velo rassicurante della finzione. È il caso di Bruno, che tende un agguato armato ai coniugi Vismara, per scherzo, prima di condividere con loro una giornata di ozio borghese.
O, più emblematicamente, dell’impiccagione a cui Ludovica sottopone un membro del cast del suo ultimo film in lavorazione. Per un problema tecnico legato all’imbragatura, quella che doveva essere semplice finzione si tramuta istantaneamente in una reale esecuzione, in cui della finzione permane unicamente la gratuità. Qui ludicità si rivela, significativamente, puro involucro. Come nel caso di Federico, sempre più inadeguato a giustificare esteticamente impulsi aggressivi che anelano ad una piena, appagante manifestazione.
I Pavone non sono che l’involucro ipocrita e fallace dei Vismara. La discrasia tra i due è pura apparenza. Occorre dunque che questa apparenza venga risolta, svelata, così che l’ira di Federico possa detonare in un atto finalmente sincero.
A congiungere i due mondi, quello borghese e intellettuale con quello proletario e fascista, è la figura demiurgica del truffatore (figura innominata, interpretata da Vinicio Marchioni). Sarà lui, vendendo un orologio alla madre di Claudio, a mettere in moto un processo di avvenimenti -la cui sintetizzazione in questa sede è tanto inutile quanto difficoltosa- che condurrà le due famiglie ad una momentanea convergenza. Non bisogna sottovalutare la potenza poietica del truffatore: trattasi di un individuo capace di intervenire artisticamente sulla realtà (cfr. F come Falso, or. Vérités et mensonges, dir. O. Welles, 1973), piegandone le abituali coordinate (solitamente a proprio favore), e dunque perfettamente adeguato ad operare un rimodellamento dello status quo.
Dal ruolo di venditore di orologi a quello dell’ambiguo principe Guglielmo, il truffatore è figura fluida e fluidificante, capace di insinuarsi in qualsiasi strato sociale così come di sfumarne i confini presupposti, in una nuvola di fumo.
Nietzsche
«Io… Io ho la profonda necessità di una bomba.»
Venendo (fortuitamente) a contatto con Claudio Vismara, Federico si trova finalmente nelle condizioni di dare fisica concrezione al suo malessere. Acquista illegalmente dal neo-fascista un ordigno con il quale distruggere la tomba di Friedrich Nietzsche, per vendicarsi di Fiorillo, della sua esclusione dalla riesumazione. Eppure la detonazione a lungo attesa avviene in maniera totalmente anticlimatica. L’esplosione, relegata fuori campo, sarà esperibile solo auditivamente: l’insoddisfazione è dunque palpabile già sul piano estetico-spettacolare. Essa prosegue ulteriormente nel momento in cui realizziamo che l’azione di Federico è rivolta verso un morto e il suo sepolcro. È totalmente sterile, se pensiamo che a essere danneggiate saranno tutt’al più le deliranti ricerche di Fiorillo, discutibili già nei loro presupposti scientifici. La sua rabbia si esaurisce in un circolo vizioso di futilità, qui all’ennesima reiterazione. L’esperienza della violenza non ha per Federico nulla di catartico.
Al cospetto della totale apatia in cui i Pavone sembrano immersi da tempo immemore, riconosciuto anche da Claudio Vismara nel momento in cui vorrebbe uccidere Federico (così da eliminare ogni traccia che riconduca al suo traffico d’armi), ogni azione è svuotata, annichilita. Anche la più carica di potenziale eversivo, la più atroce. Laddove il fascista sembra abbandonare la pratica della violenza, riconoscendone la totale inutilità, Federico pare soltanto essersi sfogato abbracciandone l’orizzonte. Ma nessuna verità si schiude ai suoi occhi, per sempre rimbecilliti.
Quella operata dal truffatore si rivela una congiunzione momentanea, instabile, tra due mondi irrimediabilmente scissi dall’incomunicabilità. Il sorriso di Marchioni, esasperato fino all’ebetismo, cinge I predatori in un anello beffardo, coronando il fallimento di qualsiasi mediazione e affogando quanto esperito in quella stessa nube in cui il venditore di orologi si dileguava al momento della sua prima apparizione. È lui l’unico, eterno vincitore.
Vinicio Marchioni: a sinistra, nei panni del venditore di orologi; a destra del principe Guglielmo, nell’inquadratura che chiude il film.
1F. Nietzsche, La gaia scienza e idilli di Messina, Adelphi, Milano 2020, p. 64
2Pensiamo soltanto al gioco voyeuristico imbastito da Gaia (Anita Caprioli), che, per eccitarsi, manda le foto scattatele dall’amante al marito, così che questo le mostri nuovamente, inconsapevole, all’amante stesso: endogamia e autoreferenzialità coincidono in una crasi visuale.