Se la filosofia è un genere letterario

… mediante un ragionamento bastardo [λογισμῷ τινι νόθῳ]…

Platone

Sembra che i sistemi, come i vermi, si formino per generatio aequivoca... dalla semplice confluenza di concetti raccolti assieme.

I. Kant

(Un discorso arabescato, cammini aintenzionali di un divagare che è avvicinamento progressivo all’inattingibile punto vero che, quindi, non sarà mai un centro; è filosofia questa? Di certo, è un problema di stile. Ma ancora: che filosofia è quella che s’interroga sul proprio stile? Esiste, poi, la filosofia? L’archeologia del pensiero conduce la filosofia a domandarsi della propria nascita, per scoprire, alla fine, che di essa non vi è ‘nascita’ alcuna. Del resto, è impossibile anche dire cosa la filosofia propriamente sia. Essa non dimora in un luogo specifico: per questo nessuno la conosce, o l’ha mai conosciuta. Già Platone definiva aoikos, ‘senza casa’, questo amore del pensiero).

Occorre riconoscere che da sempre la filosofia si agita in seno alla letteratura (intendendo con questo termine tutto ciò che sta fra la prima selce scheggiata del Paleolitico e Joyce). Ma ad una simile provocazione, accademici e professori non tarderanno ad invocare il poema Sulla natura di Parmenide quale origine decisiva del ‘discorso filosofico’. E tuttavia: quanti di loro hanno saputo leggervi, in filigrana, il capolavoro dell’ironia tragica greca? Parmenide edifica un componimento in versi, la cui assimilazione mnemonica (così pensava, prima di Socrate, l’uomo greco) sfocia nell’autodistruzione del poema in quanto tale, nella condanna delle opinioni dei ‘mortali’, perché alla fine resti – corpo errante nel vuoto – la bebaiotate arché, ferma come il cuore della verità. Ma il pensiero che si vorrebbe puro, astratto e universale, si vede negato proprio da questa stessa scaturigine: la narrazione di un giovane condotto, su un carro guidato dalle figlie del sole, al cospetto della dea, in un profluvio di metafore, simboli e immagini che solo congelandosi possono dare ‘idee distinte’ – come quella, appunto, della filosofia come ‘disciplina’.

Bizzarro genere letterario, la filosofia; essa non tarda ad indicare la propria struttura ideale nel dialogo. Proponendo lunghe serie di alternative per la soluzione dei suoi problemi, il sofista cerca di scalzare l’avversario stabilendo la fondazione della propria tesi, già decisa prima del dialogo – che assume così l’aspetto di un ipocrita gioco di abilità. Ben più onesta è la letteratura, che nei monologhi narrativi della prosa e del verso abortisce la stessa possibilità che un’antitesi vi sia.

Ogni filosofia è anzitutto la sua stessa fisiognomica. Ma la storia della filosofia annovera un’enorme varietà di forme: dall’imitazione della parola viva (i dialoghi platonici) alla narrazione di una mente che vuol raccontarsi (le Confessioni di Agostino, Anatol di Sgalambro), da appunti di lezioni sistematizzate postumamente (la Metafisica di Aristotele) al non-finito (Essere e tempo di Heidegger, La filosofia del culto di Florenskij), dal frammento, la scheggia vagante (i romantici tedeschi, fino a Nietzsche e Benjamin) alla magnifica pratica, estinta, del carteggio (Spinoza come Leibniz, Benn e Oelze, Benjamin e Scholem), fino al fluire della prosa assoluta, di un pensiero selvaggio che non può permettersi alcun indugio o rilettura di sé, come se si sapesse destinato all’immediata dissipazione (The Big Typescript di Wittgenstein, La conversazione infinita di Blanchot).

Ma se la filosofia è pratica anarchica (solo ciò che non ha arché, o che si crede fuori di essa, può indicarla come compito), guai se si sottometterà a quelle forme spacciate per caratteri congeniti: la più rischiosa e letale di queste annuncia, con falsa onestà, logon didonai, ‘dare ragione’ (la regola del filosofo dialogante, assassino in agguato). Una filosofia che voglia comprendere la letteratura, il suo timbro sacrilego e illusorio, dovrà prima di tutto simularla (se conoscenza è, a partire da Platone e Aristotele, una comprensione simpatetica della cosa). Che diventi narrante, quindi. Dare ragione, spiegare, col tempo, diventerà sempre più laborioso; gli uditori, sempre più sprovveduti – e quindi esigenti. Ormai, a chi non capisce l’indizio è inutile fornire spiegazioni.

Non dovendo più dimostrare coerenza all’esterno, un simile pensiero – camaleonte nella selva dei generi – troverà il proprio banco di prova nell’interiorità del cuore, che è, per il filosofo come per il mistico, il giudice più temibile. L’angelologia iranica parla, a questo proposito, di un angelo femminile chiamato Daēnā, che accompagna, come l’angelo custode in Occidente, ogni uomo dalla nascita alla morte, ogni giorno della vita. Ma in questo affiancamento, Daēnā muta le proprie fattezze, analogamente alle gesta dell’anima assegnatale.

La filosofia è con ciò richiamata ad essere ‘abito di vita’, rivolgimento continuo verso questo luogo santo che è il cuore di ognuno.

Il poema indiano Gitagovinda parla di un «pensiero come tempio affrescato dalle imprese della dea della parola». Il pensiero più autentico, però, non è il tempio, ma l’impalpabile superficie dell’immagine dipinta. Compreso questo, la pelle dell’affresco si stacca dal muro, abbandona il proprio supporto, per arrotolarsi in un gorgo di infinite possibilità. Il pensiero autentico è questo fregio interminabile e inesauribile – e che allo stesso tempo coincide con la biografia del pittore. Il contemplante, infatti, dipinge ossessivamente il proprio ritratto, fino a che Daēnā non gli viene incontro, bellissima o terribile nell’aspetto, secondo la vita del pittore.

Ma come separare filosofia e poesia, dopo questo riflusso della mente nell’interiorità, origine e meta di ogni forma di pensiero?

L’esperienza sorgiva della filosofia, la sua arché, è questo perpetuo gesto della mente che divide-e-riunisce; è la contemplazione, dove appunto ogni cesura (soggetto e oggetto, dentro e fuori, mente e corpo) continuamente si apre e risana, in una rete di infinite corrispondenze in cui, paradossalmente, non vi è un’arché individuabile – ma un ritmo, che nei suoi battiti abolisce ogni gerarchia. Ecco la vertigine che, sulla scia della grande mistica medievale, un anonimo inglese del XIV secolo chiamò Nube della non-conoscenza, definendo così non la miseria del pensiero umano (parte) davanti all’assoluto della verità (tutto), bensì la sconfinata potenza infigurabile della mente giunta a contemplare se stessa: amante e amato congiunti nell’unio mystica, che ogni conoscenza particolare travolge e abbraccia in sé.

Ecco il senso dell’idea wittgensteiniana per cui, propriamente, la filosofia andrebbe poetata. Se il pensiero riuscirà a specchiarsi nelle acque del linguaggio, appena increspate dal vento delle sintassi, ritroverà quel furore analogico che a tutti i costi l’Occidente ha tentato di rimuovere: il genio fisiognomico capace di percepire corrispondenze secondo la mobilità di metafore, metonimie, immagini. Libera dalle secche di idee come ‘storia’ e ‘progresso’, la filosofia potrà, finalmente ammettere (come la Nube ammette in sé tutte le conoscenze, senza identificarsi con nessuna di esse) nel suo canone infinito i versi di Esiodo e l’invasamento di Hölderlin, gli inni del Veda e i terrori di Kafka, il Tao e Melville, il Libro dei Salmi e Rimbaud – in un’inconcludibile ghirlanda che, finalmente, non adornerà più nulla, inservibile e inutile: corona di ogni pensare.

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