Out of Sight – Un fotogramma
Jennifer Lopez e George Clooney si specchiano l’uno nell’altro.
Dimentichiamoci del film da cui il fotogramma proposto è tratto, ovvero di Out of Sight (1998), e dunque del terreno da cui esso affiora, e da cui noi lo strappiamo brutalmente, incuranti. Dei personaggi di cui Lopez e Clooney sono interpreti. Dimentichiamoci, proseguendo la sequela di obliterazioni, non solo di Stevem Soderbergh, cui potremmo convenzionalmente imputare la paternità dell’opera, ma anche di qualsivoglia intentio auctoris.
Cosa rimane?
Un’immagine, solitaria, popolata da due figure antropomorfiche.
Oltre ai corpi degli attori, ben poco. Si intravede l’arredo della camera, funzionale ai due corpi per sostenerli. Ma il mondo circostante, tutto ciò che non può dimostrare nell’istantaneità dell’immagine la sua funzionalità, sfocato, è ridotto a uno schermo sul quale le due figure giganteggiano indisturbate. La funzionalità del mondo, laddove non immediatamente apparente, è forzata attraverso un processo di appiattimento: la policromia dell’illuminazione cittadina diviene il vuoto necessario a far respirare le forme dei loro corpi. Tutto, per un istante, esiste in loro funzione.
Quelli di cui non possiamo sceverare il fotogramma preso in esame sono dunque i corpi di Lopez e Clooney. Ma questi non sono significanti inerti, tutt’altro. A permeare la loro carne è il loro status, di cui godono anche quando la loro performance è eradicata dal suo tessuto vitale, svuotata di ogni possibile senso: lo stardom. È questo l’elemento che radicalmente orienta la modalità fruitiva, anche quando riduciamo un’opera cinematografica, snaturandola, alla sua componente primaria: il fotogramma. I due corpi-significanti, intrisi del loro stardom, lasciano ben poco margine anche all’intentio lectoris più aberrante, quantomeno per ciò che concerne il verso di lettura. La moltitudine dei percorsi di lettura possibili è ridotta a un semplice, misero bivio. Il grado zero di un labirinto, che rimane ciononostante irrisolvibile. Le figure, la cui icasticità è in ultima istanza racchiusa nel loro volto, si equivalgono. La composizione dell’immagine sottolinea e rinforza il loro parallelismo tracciando -attraverso gli infissi delle finestre- una linea di demarcazione che consegna l’immagine alla simmetria. Nella misura in cui Lopez e Clonney si equivalgono, l’orientamento dello sguardo è indecidibile. Si prova, fruendo dell’inquadratura, una condizione di strabismo.
Dopo l’oblio cui ci siamo sottoposti, diviene dunque necessario un recupero mnemonico. Non dimentichiamoci che quello preso in questione è, nonostante tutto, un fotogramma, unità minima del flusso cinematografico. Non una porzione spaziale, ma una frazione temporale. Non dunque un’immagine eterna, ma una soggetta a corruzione. La vicendevole contemplazione in cui Lopez e Clooney si intrattengono dura, in Out of Sight, una trentina di secondi. È pur vero che l’inquadratura in questione è statica, e anche i loro corpi che la abitano non eseguono che movimenti minimali. La fruizione cinematografica convive per qualche secondo, in uno spazio liminale, con quella di un’opera pittorica. E pur godendo -per un breve periodo- di una parvenza d’immortalità, l’immagine subisce un0ineluttabile corruzione.
La corruzione cronologica non risparmia neanche l’atto fruitivo di tale immagine. Lo strabismo è accompagnato da una sorta di terrore, generato dalla consapevolezza che bisogna decidere dove e dunque chi guardare prima che quei fotogrammi sfumino, divorati dal tempo e soppiantati dai loro successori.
Ogni fotogramma vive una doppia vita. Quella immortale dell’icona, intrappolata nelle maglie di quella terrigna del tempo. Alla prima pertengono gli elementi spaziali, le relazioni sincroniche potenzialmente riscontrabili in seno a qualsivoglia immagine. Relazioni potenzialmente eterne: Lopez e Cloneey si guardano, operata l’eradicazione sopra proposta, all’infinito. Una tensione erotica olimpica, disciolta nella calma di chi ha da perdere tutto il tempo del mondo. La loro immortalità è però castrata dall’incedere fotogrammatico: il tempo di esposizione dell’immagine -parallelamente a quello della sua fruizione- è decretato una volta e per sempre dal meccanismo cinematografico.
Ecco che divengono fondamentali significanti il cui particolare status li renda immediatamente percepibili come necessariamente degni di attenzione, così che lo sguardo, ondivago, venga immediatamente immesso in una corsia fruitiva preferenziale nel poco tempo a disposizione. Tale è il caso dei significanti-star.
When you’re on the screen, no matter who you’re with, what you’re doing, the audience is looking at you. That’s star quality.[1]
La logica di un orientamento fruitivo attuabile attraverso la selezione e l’oculata distribuzione di significanti “magnetici” può essere sfruttata tanto per disegnare percorsi fruitivi perclari quanto per tracciare labirinti oscuri. Tale è il caso di Out of Sight e dell’inquadratura in questione, ora non più ridotta a fotogramma (pur se ancora decontestualizzata dal testo filmico cui apparterrebbe). La composizione dell’immagine, ponendo in posizione speculare due stars, invalida ogni rapporto gerarchico tra le due escludendo un percorso fruitivo univoco. Il magnetismo univocamente attribuibile alla Georgia Lorrison di The Bad and The Beautiful, che costringeva -secondo le parole di Shields- lo sguardo dell’audience a un unico e imprescindibile percorso fruitivo, è spodestato dal dualismo e, dunque, da una biforcazione ottica. Una struttura binaria, diarchica, egualmente solida, eppure aperta alla singolarità dello sguardo spettatoriale, nella misura in cui è a quest’ultimo che è demandato il tempo per il quale si soffermerà su un corpo piuttosto che su un altro.
Dalla moltivocità della luce riaffiora dunque l’oscurità dell’ambiguo, da sempre sopita nell’occhio dello spettatore. Dal tempo rigido -cronologicamente scolpito- del cinema, riaffiora l’eterno. Nel continuo rimodularsi del percorso di un labirinto già tracciato.
[1] Jonathan Shields (K. Douglas) a Georgia Lorrison (L. Turner), The Bad and the Beautiful, dir. V. Minnelli, 1952