Divagazioni su E. Cioran. Intervista ad Antonio Di Gennaro

Intervista a cura di Arlindo Hank Toska per Sovrapposizioni.

Arlindo Hank Toska: Antonio Di Gennaro è uno dei più attenti studiosi di Emil Cioran al mondo, autore, tra l’altro, di un importante saggio dal titolo: Metafisica dell’addio. Studi su E. Cioran. Da molti anni svolgi un’attività di ricerca sui testi inediti del pensatore rumeno, con particolare attenzione a interviste e carteggi. Come nasce questa tua ossessione per le interviste e le lettere di Cioran? Di cosa ti stai occupando attualmente?

Antonio Di Gennaro: Nella vita le cose accadono per caso. Per caso ho conosciuto Cioran, a 25 anni, per caso mi sono imbattuto nel materiale inedito (interviste e carteggi). Quando ti accorgi che il caso si ripete, non una, ma più volte, allora comprendi che esiste un sentiero inesplorato che ti appartiene e che devi percorrere: quello è il tuo “destino”! Dopo aver pubblicato nel 2011 Metafisica dell’addio, ho iniziato a confrontare i riferimenti bibliografici di volumi francesi, rumeni, tedeschi, olandesi, sudamericani su Cioran. In questi testi venivano citate interviste che in Italia non esistevano. All’inizio pensavo fossero poche, ma in realtà erano tantissime e non erano incluse nel volume Entretiens (tradotto in Italia con il titolo Un apolide metafisico). Così, per anni, ho cercato di fare una mappatura esaustiva di questo materiale e al tempo stesso di recuperalo, contattando riviste, biblioteche, archivi, mediateche di emittenti televisive o radiofoniche ecc. In alcuni casi sono stato fortunato e ho avuto modo di conoscere i giornalisti o gli scrittori che hanno intervistato Cioran, ed essi stessi mi hanno inviato una trascrizione del loro contributo. Ho conosciuto (ovviamente solo via email) persone stupende, che hanno compreso il mio amore verso Cioran e mi hanno supportato nel mio lavoro di ricerca: Jason Weiss, Paul Assall, Leonard Schwartz, Arta Lucescu Boutcher, Christian Bussy, Philippe D. Dracodaïdis, Alina Diaconú, Ion Deaconescu, Hein-Norbert Jocks, per citare solo alcuni nomi. Parte dei risultati di questo lavoro apparirà prossimamente nel volume edito da La scuola di Pitagora, Ultimatum all’esistenza, che raccoglie interviste rilasciate nel periodo 1950-1994. Parallelamente al lavoro sulle conversazioni, quasi naturalmente, mi sono interessato ai carteggi. Ho iniziato infatti a contattare coloro che avevano avuto una corrispondenza con Cioran, come lo scrittore-poeta Dieter Schlesak e il musicologo George Bălan, oppure enti statali come il CNSAS (Consi­liul Naţional pentru Studierea Arhivelor Securităţii), per quanto riguarda le lettere inviate da Cioran a Petre Ţuţea, una figura di spicco in Romania. Attualmente mi sto occupando di un altro importante tassello, per cercare di ricostruire e chiarire a me stesso la vicenda biografica e intellettuale di Cioran. Mi riferisco alle lettere intercorse tra Cioran e i fratelli di origine armena Jeni e Arşavir Acterian. Sono lettere intense, in cui traspare un’amicizia sincera e profonda.

AHT: Tutti coloro che hanno intervistato Cioran hanno sempre cercato di inserirlo in una determinata categoria (pessimismo, nichilismo, ecc.): Cioran viene spesso bollato, anche da te, con etichette, spesso ossimoriche, nel tentativo di inquadrare l’uomo e l’“opera”: il “mistico nichilista”, il “credente ateo”. Egli stesso, nel breve scritto “Qualche parola su Leopardi” si definisce un “barbaro dei Carpazi”. Mi viene in mente un passo di Constantin Noica, che, nel 1957, a proposito di Cioran afferma: «No, non siete mai stato un barbaro; nei più sfrenati eccessi del cuore, siete stato un raffinato». In effetti, un barbaro non scrive come Cioran! Non sarebbe forse più appropriato “etichettarlo” come un raffinato, che si è affermato in un Occidente in declino?

ADG: No, Cioran è davvero un “barbaro”, un “primitif chez les sceptiques”, parafrasando il giornalista tedesco Hein-Norbert Jocks. Se si leggono i testi rumeni, se prendiamo in considerazione le lettere scritte in lingua rumena e inviate durante gli anni Trenta, si comprende il grado di follia di questo giovane pensatore, il grado di schizofrenia incontrollabile, il suo furore isterico. Cioran scrive in una forma assolutamente disarticolata, scoordinata, come un invasato. Nel Cioran rumeno la questione dello stile non si pone affatto, cosa che avverrà invece in Francia quando inizierà a scrivere attraverso una prosa elegante e raffinata. È quello il metodo utilizzato da Cioran per convivere con la depressione che lo affligge: la fatica delle parole, stancarsi mentalmente attraverso l’uso dei dizionari, appropriarsi di una nuova lingua sino a dominarla. Nei Quaderni infatti scrive: «Sbagliano completamente quelli che mi attribuiscono o mi riconoscono uno “stile”. Io non ho stile, ho, come ha notato Saint-John Perse, un “ritmo”. Un ritmo che corrisponde alla mia fisiologia, al mio essere; è la mia cadenza organica, il mio ansimare isterico che riesce a passare nelle frasi. Ma è sbagliato assimilare questa capacità di proiettarvi i miei moti interiori a uno “stile” o a un qualsiasi talento. No, non ho né talento né stile, ho un tono cadenzato che deriva, fra l’altro, dal mio pressoché continuo stato di ansia». In altre parole, Cioran acquisisce uno “stile” per necessità, per non gettarsi nella Senna, anche se spesso rimpiange il rumeno, come confida allo stesso Noica nella citata Lettera a un amico lontano: «[…] mi capita ancora di rimpianger[n]e l’odore di freschezza e di marciume, il miscuglio di sole e di sterco, la bruttezza nostalgica, la superba scompostezza». La lingua rumena è per Cioran molto più lirica, poetica, mentre quella francese è “per giuristi”.

AHT: Nell’intervista concessa a Christian Bussy, da te curata, Cioran dice: «[…] ho denunciato parecchie cose, ma con un sentimento dell’irreparabile». È un’espressione, questa, che non troviamo spesso nelle opere cioraniane. Che cos’è l’Irreparabile per Cioran?

ADG: L’irreparabile è, per utilizzare un’espressione di Cioran un “élan vers le pire”. Secondo Cioran, vi è una necessità immanente nella vita del singolo e nel divenire storico: tutto tende al peggio, al declino, alla decadenza, al fallimento. L’irreparabile è dunque una legge inscritta nell’umano, è il “destino” imperscrutabile e spietato, è la “sorte” avversa, il “fato” funesto che attanaglia l’esistenza individuale e quella dei popoli. Anche in questo, Cioran mostra di essere sentitamente “rumeno” nel suo DNA. L’idea del “nulla valacco” è centrale per comprendere il suo pensiero. Per capire davvero Cioran, credo sia necessario mettere a fuoco il background psicologico romeno. Considerare soltanto il Cioran francese, senza questa preliminare analisi, sul contesto “psicologico” e “antropologico” romeno, risulta essere un’impresa fuorviante e incompleta.

AHT: Cambiamo argomento: Kafka a Milena, Sartre a Simone de Beauvoir, Nabokov alla moglie Vera, ma Cioran...! I lettori di Cioran faticano ad immaginarselo a letto con una donna, o che possa provare qualcosa che si avvicini a questo sentimento comico che è l’amore. Tuttavia, nel 2016 esce Per nulla al mondo di Friedgard Thoma, che raccoglie le lettere d’amore, le eruzioni emotive che i due si scambiarono, e che mostrano la parte più appassionata e irrazionale di Cioran! Qual è il rapporto che Cioran intrattiene con le donne? E, in definitiva, con l’amore?

ADG: Questo è un tema solitamente poco trattato dagli studiosi, ma che reputo di fondamentale importanza: il rapporto di Cioran con le donne e l’amore. Cioran da giovane vive una fortissima delusione amorosa. Era segretamente innamorato di una ragazzina, Cela Schian, e non riesce mai a confessarle i suoi sentimenti: è il suo “primo amore” e lui è molto timido. Un giorno scopre la giovane appartata con un altro ragazzino, che tutti chiamano “il pidocchio”. Per Cioran è un trauma profondo, uno squarcio nel cuore. L’amore inteso come “ideale” si infrange implacabilmente contro una realtà crudele. Cioran reagisce a questa “disfatta emotiva” in due modi: si immerge anima e corpo nella lettura di Sesso e carattere del filosofo austriaco Otto Weininger, e poi inizia a frequentare le prostitute. La visione di Weininger sulle donne, molto negativa, influenzerà non poco Cioran e le prostitute saranno il suo “chiodo fisso”, in Romania, in Germania, e poi in Francia. Nelle interviste contenute in Ultimatum all’esistenza, di prossima pubblicazione, questo è uno dei temi centrali: il ruolo e l’importanza delle prostitute nel suo pensiero. Non è solo una questione meramente “fisica”, “sessuale”, ma direi anche “psicologica”, “affettiva”, finanche “metafisica”. In una delle interviste afferma infatti: «Solo tra le braccia di una puttana, penso a Dio».

AHT: In Metafisica dell’addio ti sei occupato anche del “cafard” (letteralmente: scarafaggio). È un termine intraducibile così come lo è “saudade” in portoghese, o la parola russa “Toska”, come il sottoscritto. Nabokov, a tal proposito, dice: «Non esiste una singola parola che renda tutte le sfumature di Toska. Nel suo significato più profondo e doloroso, è una sensazione di grande angoscia spirituale, spesso senza una causa specifica. A livelli meno morbosi si tratta di un dolore sordo dell’anima, un desiderio ardente senza niente da desiderare, un desiderio malsano, una vaga irrequietezza, travagli mentali, bramosia». È una definizione di “cafard” che andrebbe bene per Cioran, dopo aver perduto il suo paradiso? In che modo la scrittura come pratica terapeutica lo ha salvato da un’esperienza così terribile?

ADG: Il termine francese “cafard” è il sentimento del nulla, del vuoto, della vacuità universale, della futilità della vita. Non è un concetto astratto, ma un’esperienza vissuta, che ha a che fare con la sfera emotiva, non con quella logica o razionale. Cioran, sin da giovane soffre di questa inquietudine lancinante, di questo malessere interiore, di non appartenenza al mondo, di estraneità, che certamente ha affinità con i termini “saudade” e “toska”. Ora, se la vita è intessuta di “cafard”, ossia dal sentimento della morte, in che modo possiamo sopportarla? Cioran adotta negli anni diverse strategie: la fatica fisica innanzitutto (camminare o pedalare per chilometri, sino allo sfinimento), oppure, la scrittura. Un articolo giovanile reca infatti come titolo: “La scrittura come mezzo di liberazione”. Cioran capisce che, attraverso la scrittura, egli si libera (momentaneamente) di questa insofferenza interiore che opprime la sua anima. Scrivere gli consente di portare fuori e quindi di esteriorizzare questo magma incandescente che gli toglie il respiro. Da qui nasce la sua riflessione filosofica, intesa come pensiero esistenziale, tant’è vero, che affermerà ancora nei Quaderni: «Tutti i grandi interrogativi metafisici cominciano con il cafard».

AHT: Rimaniamo al tema della scrittura, in riferimento a ciò che Cioran non ha mai scritto: quella Teoria generale delle lacrime di cui si sarebbe voluto occupare per la sua tesi di laurea in filosofia a Bucarest. Pur affermando di aver sempre pianto senza aver versato mai una lacrima, Cioran rivolge una grande attenzione al tema delle “lacrime”. Che valore hanno nella sua opera e nel suo cammino di pensiero?

ADG: La filosofia per Cioran può essere considerata una “ermeneutica delle lacrime”. A cosa rinviano le lacrime? Di cosa sono cifra? Qual è il messaggio che si cela dietro di esse? Le lacrime sono, metaforicamente parlando, l’elemento sensibile attraverso cui traspare il dolore universale, l’immagine pura di una “coscienza infelice”, che è giunta a un certo grado di lucidità. È un tema che attraversa tutte le sue opere, soprattutto Lacrime e santi, del 1937. Anche nei Quaderni, troviamo vari passaggi dedicati alle lacrime. Questo mi sembra davvero esemplificativo per rispondere alla tua domanda: «Fra il nulla e le ghiandole lacrimali vi è comunicazione diretta, almeno nel mio caso».

AHT: Cioran non ha mai scritto romanzi, ma soltanto aforismi e brevi saggi filosofici. Se Cioran avesse fatto di sé stesso un personaggio letterario (come la figura di Stavrogin in Dostoevskij), avrebbe sconfitto il “cafard”? Sarebbe riuscito a oltrepassare la finitezza della temporalità, e giungere ad un qualcosa di eterno?

ADG: Per Cioran non c’è nulla di eterno, ma soltanto l’effimero: il Nulla. Io credo che Cioran abbia un approccio sintetico al pensiero e quindi alla scrittura. Egli è incapace di descrivere e raccontare, in maniera approfondita e particolareggiata. Cioran dice l’essenziale con una sola battuta. È una stoccata fissa che raggiunge il cuore nevralgico delle cose, il fulcro dell’essere nulla di tutto ciò che esiste. Non ha bisogno di raccontare, come i grandi romanzieri e narratori, ma di “sentenziare” una verità, che può essere anche solo momentanea, frutto di un suo particolare stato d’animo. Se è vero ciò, chiunque legge Cioran, si riconosce nei suoi meravigliosi aforismi e nella sua scrittura lirica, impregnata di pathos. Risiede qui la sua grandezza: l’aver reso universale il suo grido di dolore, avendo descritto con poche pennellate di parole, ciò che si vive “al culmine della disperazione”.

AHT: Un’ultima domanda. Peter Sloterdijk, in un saggio su Emil Cioran, dice: «Diversamente da Nietzsche, Cioran non si è atteggiato a superatore della sua propria decadenza, forse perché vide bene l’ultima illusione di Nietzsche: il sogno malato della grande salute». È possibile pensare Cioran come un Nietzsche che ha negato fino in fondo, sebbene i suoi aforismi siano affermazioni? Un Nietzsche che è rimasto lucido fino alla fine, pensando la pazzia da vicinissimo ma evitando di esserne pervaso?

ADG: Il rapporto “Cioran-Nietzsche” è un altro tema di grande interesse. Cioran legge e ammira Nietzsche in gioventù, ma progressivamente se ne distacca. In Cioran non c’è alcun “superuomo”, nessuna “volontà di potenza”, semplicemente perché l’uomo è da sempre un “animale maledetto”. Nietzsche dice “sì” alla vita, nonostante la tragicità e la drammaticità che la caratterizzano. Cioran sogna invece un ritorno allo stato vegetale o minerale, dove non c’è traccia di coscienza e dunque di dolore. Cioran inoltre critica il pensiero di Nietzsche. A suo avviso è tutta una “costruzione”, tipicamente tedesca. Il vero Nietzsche, secondo Cioran, è quello privato, sofferente, che è possibile scorgere attraverso le lettere. Se proprio dovessimo individuare dei pensatori spiritualmente “affini” a Cioran, penso a Fernando Pessoa, Stig Dagerman, Pär Lagerkvist, Joë Bousquet, tutti autori che hanno posto al centro della loro riflessione la propria singola esistenza e hanno trattato dunque il “male di vivere” e l’“inconveniente di essere nati”.

AHT: Je vous remercie!

ADG: Grazie a te, per la proficua occasione di confronto.

Antonio Di Gennaro, saggista, coordinatore del “Progetto Cioran” (Università “L’Orientale” di Napoli – Università “Tibiscus” di Timişoara). Tra le sue pubblicazioni: Metafisica dell’addio. Studi su Emil Cioran (2011) e Cioran in Italia (a cura di, 2012, con Gabriella Molcsan). Da anni svolge un’intensa attività di ricerca sui testi inediti del pensatore romeno, con particolare attenzione a interviste e carteggi. In tal senso ha curato i volumi: L’intellettuale senza patria (2014), Vivere contro l’evidenza (2014), Al di là della filosofia (2014), Tradire la propria lingua (2015), La speranza è più della vita (2015), Un’altra verità (2016), I miei paradossi (2017), Tra inquietudine e fede (2017), Itinerari di una vita. L’apocalisse secondo Cioran (2018), Dio e il Nulla. La religiosità atea di Emil Cioran (2019, con Pasquale Giustiniani), L’insonnia dello spirito (2019). Di prossima pubblicazione: Ultimatum all’esistenza. Conversazioni e interviste (1950-1994).

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