Il valzer di Kundera. Intervista a Massimo Rizzante

Simone Raviola / Arlindo Hank Toska: Nel corso della tua carriera intellettuale hai, tra le altre cose, portato a compimento alcune traduzioni di Milan Kundera, il quale ha spesso dichiarato la sua ostilità, anche con veemenza, ad un certo tipo di traduzione “manipolatoria” rivendicando la necessità di un’aderenza al testo originario, con le sue digressioni, le sue difficoltà, le sue sottigliezze semantiche. Come hai fatto i conti con questa posizione nel tuo lavoro di traduzione?

Massimo Rizzante: Per Milan Kundera la traduzione è un’arte, come del resto il romanzo e il saggio. L’ha definita una volta «l’arte della fedeltà». Ora che cos’è un’arte? Un’arte, nel suo significato originario è tèchne, cioè qualcosa di molto concreto che si fa con strumenti molto concreti. Certo, la cosiddetta cultura ha un suo peso, ma non la teoria. Quanti filosofi hanno disquisito a sproposito sulla possibilità di tradurre un’opera? Ecco, Kundera parte dall’idea che la letteratura universale non esisterebbe senza le traduzioni. E che queste traduzioni sono tanto più belle quanto sono più fedeli. Questa fedeltà è una sfida, una scommessa individuale. Per questo la traduzione è un’arte. C’è bisogno di invenzione, di buon senso e di creatività. Ora, quando mi sono messo a tradurre alcuni libri di Kundera ho un po’ messo in pratica quel che aveva detto e scritto. E ho tenuto in particolare conto la precisione millimetrica con cui sceglie ogni parola. Soprattutto nelle ultime opere, il cui formato si riduce sempre di più, la prosa di Kundera è quella di un poeta del romanzo. Non si può saltare neppure una riga senza che qualcosa non venga perso.

SR/AHT: Tradurre significa, inevitabilmente, tradire. Spesso nell’opera tradotta, si “perde qualcosa”: sia esso uno “tic” letterario, un certo uso della lingua, una certa sintassi. C’è in questo senso un Kundera “intraducibile”? Il francese di un ceco costituisce, in questo contesto, un problema traduttivo?

MR: Non credo di avere avuto questo tipo di problema. Naturalmente, nessuna parola di una lingua trova il suo esatto corrispettivo in un’altra. Ma la cosa più importante è l’intenzione estetica dell’autore e, ancora di più, dell’opera stessa. L’opera dice sempre molto di più del suo autore, almeno se si tratta di un autore di rango. Bisogna conoscere bene l’estetica di un artista, è ovvio, per poterlo tradurre. Quanto allo stile, se si vuole, Kundera ha sempre compiuto scelte all’insegna della precisione e della trasparenza (da non confondere con l’ipercorrettismo che affligge molti scrittori contemporanei, segno inconfondibile, se ce n’è uno, della scarsa urgenza della loro arte), fedele in questo all’insegnamento di Flaubert («le mot juste»). Kundera non ha mai scommesso sullo stile, inteso come virtuosistico esercizio linguistico, quanto sull’architettura formale e tematica dell’opera.

SR/AHT: Il romanzo, per Kundera, non è un saggio filosofico e la distinzione tra i due lavori deve essere tenuta sempre ben chiara. Tu hai altrove sottolineato come, al contrario del “romanzo filosofico” che è costruito come l’esplicazione narrativa di una certa idea del mondo precostituita alla scrittura stessa, «l’opera kunderiana non sia il prodotto di un pensatore che si accontenta di rivestire di una patina letteraria la sua concezione del mondo». Eppure, ci sono dei “motivi” o delle costanti (come, su tutti, l’humour/ironia nei confronti della Storia) che nelle sue opere sembrano dei veri e propri “concetti”. Assodato che il romanzo di Kundera non è (prettamente) filosofico poiché non insegna alcuna verità, ed assodato che esso è piuttosto il tentativo «di cercare la verità nelle molteplici coscienze dei suoi personaggi», Kundera non è però a tutti gli effetti un filosofo? O, se la parola dovesse stonare, un pensatore?

MR: Non credo che Kundera abbia mai utilizzato per sé queste due nozioni. Molti gliele hanno affibbiate, questo sì, con suo grande disappunto. Uno scrittore, un romanziere usa le parole, non i concetti. Queste parole possono diventare motivi e temi e, naturalmente, possono ripetersi con molte variazioni attraverso le situazioni e attraverso i personaggi. Ora, nessuno di questi motivi e di questi temi, presenti nei romanzi di Kundera, può essere compreso fino in fondo se li svincoliamo dalle situazioni e dai personaggi. Il romanziere non è il portavoce di una teoria, di un pensiero. E quello che pensano i personaggi non è che in minima parte quello che pensa il loro autore. Questa si chiama: ironia del romanzo. Un esempio. I primi due capitoli della Prima parte de Insostenibile leggerezza dell’essere sono dedicati alla nozione nietzschiana di «eterno ritorno». Oddio, come si fa a iniziare un romanzo parlando di Nietzsche? Com’è possibile passare improvvisamente da alcune considerazioni filosofiche sull’essere e non essere a Tomáš – il primo dei quattro personaggi protagonisti del romanzo – che viene descritto già nel terzo capitolo? Eppure il terzo capitolo inizia con queste parole: «Sono già molti anni che penso a Tomáš, ma soltanto alla luce di queste considerazioni l’ho visto con chiarezza». Far nascere un personaggio da alcune riflessioni personali dell’autore significa quattro cose: 1) concepire il romanzo come un’esplorazione di alcuni temi, di alcune parole-chiave invece che come una story 2) abbandonare la costruzione fisica e psicologica del personaggio (di che colore sono gli occhi di Tomáš? Non lo sappiamo; di quali traumi è costellata la sua infanzia? Neppure.) a favore di una sua costruzione tematica (l’esistenza di Tomáš, come quella degli altri personaggi è segnata da alcuni temi: la pesantezza, la leggerezza, l’anima, il corpo, il Kitsch, etc.); 3) infrangere la finzione del narratore (chi vi sta parlando, cari lettori, sono io, Milan Kundera in persona!); 4) rendere di conseguenza la materia del romanzo una composizione artificiale, frutto di un’architettura tanto calcolata da non lasciare spazio a facili identificazioni (cari lettori, per quanto verosimili vi sembrino le situazioni dei personaggi, qui tutto è inventato!). Ciò vale per l’intero romanzo.

SR/AHT: Kundera ha reso noto in alcune interviste il suo amore per la musica e l’idiosincrasia per i musicisti; è facile notare una certa melodia nei suoi romanzi, dacché la scrittura è molto ritmica. Qual è il rapporto tra musica e narrazione nell’opera di Kundera?

MR: Il “metodo” di composizione romanzesca di Kundera è musicale. Lui stesso ha detto più volte che dopo L’immortalità la forma della fuga (con la pubblicazione de La lentezza) ha preso il posto della forma della sonata. “L’arte della variazione” musicale è stata da lui ripresa e declinata in letteratura, cosa che nessuno aveva mai fatto. Lo sviluppo motivico e tematico, tipico della musica, è parte integrante dei suoi romanzi. Quanto alla melodia, da traduttore di alcune sue opere, direi che ha che vedere soprattutto con la costruzione della frase. Le frasi di Kundera non sono lunghe, non amano costruire periodi con molte subordinate. La melodia è semplice.

SR/AHT: Dopo il 1990 Kundera inizia a scrivere i romanzi in francese. Lo stile dello scrittore ceco non cambia, eppure varia: il respiro del romanzo si accorcia, diventa più onirico, i passaggi sono più veloci, la lunghezza del romanzo diminuisce visibilmente. Che cosa è successo? In che modo la lingua francese ha imposto il proprio ritmo e ha influenzato Kundera?

MR: La forma è cambiata, come ho detto: Kundera è passato in quel periodo dalla sonata alla fuga. E perciò ha ridotto considerevolmente il formato. Non credo che il paese di accoglienza, la Francia, e la sua lingua gli abbiano imposto particolari diktat. Sentite quel che ha detto non troppo tempo fa in un dialogo: «Si pensa sempre che un romanziere abbia le proprie radici in un paese. Non è così. Come romanziere egli affonda le proprie radici in alcuni temi esistenziali che lo affascinano e sui quali ha qualcosa da dire. Al di fuori del cerchio magico dei suoi temi, perde tutta la sua forza. Immagina per un momento che Kafka fosse stato costretto a scrivere una saga famigliare o un romanzo storico su Maria Teresa: come un qualunque cattivo scolaro, non avrebbe affatto superato l’esame».

Post-scriptum: il culto della patria e della lingua materna è un idolo romantico. E Kundera è il più anti-romantico dei romanzieri che conosca.

SR/AHT: Chi sono, secondo te, i contemporanei di Kundera? Quali altri scrittori si possono collocare nel Pantheon del romanzo, sezione fine “Tempi Moderni”?

MR: Contemporanei? Parola ambigua. Di chi ci sentiamo veramente contemporanei? In ogni caso, fra gli autori oggi in circolazione, cioè ancora vivi, non ce n’è quasi più nessuno. Questo perché, forse, i “Tempi Moderni” sono finiti. Anche quelli Post-Moderni, a dire il vero. Da qualche tempo credo siamo entrati in quelli Post-Umani, epoca in cui Kundera non ha messo piede. Direi comunque che Fuentes, morto qualche anno fa, era di sicuro un suo contemporaneo. Kundera ha sempre amato il romanzo latinoamericano: Alejo Carpentier, García Márquez, Ernesto Sabato. Poi Danilo Kis, morto trent’anni fa. Direi Juan Goytisolo, anch’egli morto qualche anno fa. Salman Rushdie, ma soprattutto fino ai Versetti satanici. E naturalmente Oe Kenzaburo, il più grande tra i viventi, sebbene abbia più di ottant’anni.

SR/AHT: I libri di Kundera sono stati e continuano ad essere dei best-seller. Come spieghi questo straordinario successo coniugato ad una tale profondità di scrittura e talento speculativo romanzesco?

MR: La lingua di Kundera è accessibile. Nei suoi romanzi c’è sempre una story. Spesso una storia d’amore ed erotica. Le donne sono sempre i suoi personaggi più importanti e più profondi. Vedi, ad esempio, Agnes de L’immortalità. E le donne leggono molti più romanzi degli uomini. Non male per uno scrittore definito spesso misogino!

SR/AHT: Un libro di Kundera che consiglieresti, e perché?

MR: L’ignoranza perché è la sintesi formale e tematica di tutta l’opera kunderiana.

SR/AHT: Grazie per il tempo che ci hai concesso!

MR: Grazie a voi!

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