I would prefer not to

«I would prefer not to»1, suona più o meno così la voce del Bartleby di Herman Melville, scrittore e poeta d’oltreoceano che vive e opera in pieno ‘800. In effetti, o meglio, suona proprio così, esattamente così, «I would prefer not», la voce del Bartleby, voce che chiama verso un’altra voce, l’unica che circoli sul protagonista stesso, «una vaga voce, che verrà riferita a suo luogo». Due voci: una che preferirebbe di no, la sua voce; l’altra, la voce su di lui, un pettegolezzo in pratica, «che Bartleby sarebbe stato impiegato subalterno nell’ufficio delle lettere smarrite (dead letters), a Washington, e che era stato improvvisamente licenziato per un cambiamento d’amministrazione». Tra queste due voci lo spazio della narrazione si apre alla nostra lettura.

La storia è semplice e la ricordiamo un po’ tutti. C’è il narratore, un narratore sciolto e dal linguaggio attento, non giovane anzi «un uomo piuttosto (rather) anziano». Un avvocato nella norma, rappresentante in qualche modo della norma stessa si dirà forse tra poco, un avvocato che sostanzialmente trascorre la sua vita nell’assumere e espellere scartoffie. «Un testimone» scrive Deleuze. Ma non solo, l’avvocato è anche e soprattutto uno di quei che personaggi «che sta dalla parte della legge, guardiano delle leggi divine e umane della natura seconda»2. L’avvocato rappresenta la norma in fondo perché si ricorda del comando, divino e non. Ad esempio quando pensa a lasciarsi andare nell’impeto di rabbia che lo sta montando ma si ricorda della «divina ingiunzione», il principio di carità nonché il comandamento che prescrive «che vi amiate l’un altro». Se l’avvocato è Legge, colui che vede la natura prima, ma non la è, che consegna la legge divina al primo naturale, chi è la sua controparte? Chi è la natura prima? Bartleby, ovviamente, c’arriviamo. Il nostro avvocato intanto prosegue la sua self description nei panni di amante della tranquillità e della prudenza, «convinto che nella vita la via più facile è la migliore». Ciò a cui soltanto bada, la sua «virtù capitale», è il metodo. Ai suoi lati, due scrivani e un garzone lo assistono nei suoi compiti. I due scrivani sono piuttosto atipici: non innocui e anonimi come si potrebbe aspettare il lettore che già pregusta una storia grigia, completo e cravatta inclusi, ma due tazze sbuffanti e scoppiettanti a cento gradi celsius. Uno rappresenta il continuo pericolo di un esplosione, letteralmente: «si manifestava in lui una strana e ardente attività, d’un carattere dinamico, turbinoso, catastrofico». Non sempre, certo, solo al pomeriggio, per qualche strano motivo, dopo mezzogiorno, ecco che un’energia irrefrenabile si scatena in lui. Un primo movimento nella legge, un primo movimento, metastabile, con un piede nel calmo lavoro del mattino e l’altro in una schizofrenia inspiegabile dell’apres-midi, emerge nell’ufficio del nostro B. Qualcosa circola in maniera evidente nel cervello esterno, l’ufficio, del nostro avvocato, da tutti giudicato «un uomo eminentemente posato». L’altro scrivano, è invece semplicemente «uno che non sapeva ciò che voleva». Un indeciso, oppure un insoddisfatto cronico, che non sa come stare al mondo. No, errata corrige: «che non era mai in grado di sistemare il tavolo in modo soddisfacente», non il mondo è il suo problema ma solamente il tavolo, l’inclinazione di questo, del tavolo rispetto alla sedia che di fronte gli sta. Neanche da dire che però, a causa della sua cattiva digestione, il pomeriggio il secondo scrivano lo passava quietamente a scrivere. Ecco che dunque «I loro capricci si davano il cambio come montassero la guardia». Alla buona vecchia guardia non poteva andare meglio, pensiamo noi, i lettori. Ci sono tutti: possiamo passare a presentare il nostro B. No, un attimo ancora, c’è il garzone. Rapida incursione la sua, rapida come rapide sono le commissioni che svolge per gli altri due scrivani, siano esse l’acquisto di mele piuttosto che di biscotti allo zenzero.

Eccoci giunti infine al nostro B., che però, come ogni soggetto degno di questo nome, necessita di un casus belli per fare la sua comparsa tra i banchi dell’ufficio di Wall Street. L’evento scatenante è, possiamo dirlo senza tremori e timori, assolutamente pretestuoso. Un aumento di lavoro, del carico di lavoro, per una promozione, o meglio un aumento di carico di lavoro a causa del conferimento di un «antica carica, ormai purtroppo soppressa dallo stato di New York, di giudice all’Alta Corte di Giustizia». Capite? «Ormai soppressa». Neanche tempo di vivere, di descrivere, che il danno è fatto, e nulla in mano più rimane di una sua presunta carica! Tutti alla ricerca della causa, e la causa non c’è più. Il piano è cambiato. Siamo al piano B. E il piano B. si presenta alla porta, visto l’annuncio di lavoro, in una figura «sbiadita nella sua decenza, miserabile nella sua rispettabilità, così disperata nella sua solitudine». Il B. viene comunque messo senza esitazione alcuna al suo posto, ma, nell’ufficio, diviso da un paravento, la sua scrivania viene apposta non dalla parte degli altri scrivani, come si sarebbe noi aspettato, ma dal lato dell’avvocato stesso. Il lavoro una volta iniziato, prosegue senza alcuna pausa. Né allegro né propriamente triste, il B. «scriveva meccanicamente, pallido e silenzioso». A pranzo non esce, e si fa portare dal garzone, Zenzero piè veloce, alcuni biscotti allo zenzero, per l’appunto. Si scoprirà solo più tardi che probabilmente il signor «I wouldprefer not to» usa l’ufficio come casa, e la casa è solo in quell’ufficio. Tutto prosegue comunque senza intoppi finché l’avvocato non chiede a B. di aiutarlo a controllare delle bozze di documenti, insieme agli altri colleghi, al di là del paravento. Il patto s’incrina. E Bartleby non può che rispondere, con tono «singurarly mild»3: «I would prefer not to».

La storia finisce qui o forse, e meglio, inizia con «I» e finisce con «to». La prosa s’inabissa in questo gorgo che si crea in fondo al vortice del racconto, fondo e gorgo – un grado zero – dal quale ogni cosa prende il suo senso e la sua posizione all’interno della narrazione. Questa semplice espressione si rivela una catastrofe del senso (linguistico). Sfida il senso (direzione, come si dice il senso della via, o un senso unico) stesso del linguaggio come referenza non facendo seguire nessun verbo al «to». Non solo, l’espressione, atipica in inglese, torce il linguaggio per fermarlo e far sì che l’indicazione si dilati nel tempo senza mai poter arrivare all’indicato, un significato. E questo atto è massimamente politico (legato allo strano incrocio di parole, cose e azioni). La «formula» è ciò che permette la disattivazione assoluta; sia che essa si produca nella forma di un annichilimento del rilancio continuo di parole sia che essa si strutturi come estinzione dell’ingiunzione del comando. Scrive Deleuze: «La formula I PREFER NOT TO esclude ogni alternativa e inghiotte quel che pretende di conservare non meno di quanto non scarti ogni altra cosa; essa implica che Bartebly cessi di copiare, cioè di riprodurre parole; fa crescere una zona di indeterminazione tale che le parole non si distinguono più, crea il vuoto nel linguaggio»4. Essa come accennavamo zittisce la parola, ferma l’anarchica proliferazione dei segni e dei sensi per mettere un punto d’interruzione. La serialità delle parole precipita così nel nulla di un’espressione. D’altra parte l’avvocato lo sa, non è che la risposta sia frutto di un’incomprensione: «ebbi l’impressione che, mentre gli stavo parlando, egli esaminasse attentamente ogni frase che pronunziavo, ne comprendesse chiaramente il significato». I significati precedono e arrivano nel luogo del preferirei di no che è il B., salvo poi disarticolarsi fino a toccare la dura pietra che è il «I would prefer not to». La «formula» in ogni caso non solo agisce come agente di intorbidimento linguistico, essa «disattiva anche gli atti linguistici con i quali un padrone può comandare, un amico benevolo porre delle domande, una persona promettere»5. Fermando il linguaggio, ferma anche le azioni. La catena delle azioni e delle cose, delle cose che s’incatenano attraverso azioni, degli ordini linguistici che comandano e producono movimenti, si ferma tanto quanto quella delle parole, del semplice significato. La sfida al Padrone, Padre e Legge che dir si voglia, è aperta.

La reazione dell’avvocato è in questo senso assolutamente eloquente: «Ma in Bartleby c’era qualcosa che non solo riusciva a disarmarmi in modo incomprensibile, ma che mi toccava, mi sconcertava». L’effetto della formula è quindi da una parte la privazione delle armi (azioni e parole nei suoi confronti sono totalmente inefficaci); dall’altra la formula, Bartleby, «tocca» un punto dell’avvocato, «Qualcosa mi spinse a toccarlo». Un tocco, in realtà, che non può avvenire mai, pena l’annullamento di ciò che lo provoca. L’unico contatto fisico testimoniato nel racconto è infatti il tocco finale, del titolare dello studio legale nei confronti di Bartleby: «Tastai la mano. Un freddo brivido mi salì per il braccio, mi corse dalla testa ai piedi». L’unico touch, l’unico feeling possibile, si manifesta allora essere la presa in carico del morto, di ciò che è morto e che non può più parlare. Tuttavia, il punto in cui viene toccato l’avvocato in prima istanza, Bartleby vivente, probabilmente è il luogo dell’origine mistica della legge (e del soggetto), il suo carattere assolutamente arbitrario, fuori dalla dicotomia legale/illegale (poiché la fonda). Non c’è altra possibile interpretazione se non quella che il B. sia il luogo di sottrazione e di abolizione (decreazione, e quindi mortificazione) della legge: «Bartleby è un law-copist, uno scriba in senso evangelico, e il suo rinunciare alla copia è anche un rinunciare alla legge, un affrancarsi dalla vetustà della lettera»6. Il luogo dove, anzi, tutte le dicotomie (illegale/legale, male/bene, io/altro, potenza/atto, regno/governo) sembrano incrociarsi in uno spazio d’indistinzione, anarchico, ingovernabile, totalmente altro. Uno spazio dove l’illegale e il legale, detto in altra maniera, risalgono dietro al proprio fratturarsi nella legge e dove così ogni Padre che decida di questa viene abortito a favore di una comunità di figli in cui Bartleby «è il fratello di tutti noi».7

B. è d’altro canto uno di quei personaggi «senza alcuna referenza»: senza alcuna possibile mappatura, che è sempre e comunque un disegno causale/arcaico del caos totale. Essi sono abbandonati al puro presente del loro esser-così, senza memoria e senza oblio, senza protensione o proiezione. Per la loro assenza di riferimenti e di una rete entro cui essere collocati, essi sono la segnatura di «un male eccessivo e radicale», vittime «di un’innata e incurabile alterazione». Di qui il tentativo, sempre fallito, di gestirli, addomesticarli, mappandoli, reificarli retificandoli : «il mattino dopo gli avrei rivolte alcune tranquille domande sul suo passato, ecc.». Il passato: alla domanda «who is he?» è il passato, l’origine, la provenienza a rispondervi. Da dove vieni? non è altro che un modo per chiedere chi sei?. E viceversa: origine ed essere si appartengono all’alba e al crepuscolo di ogni mondo. Per B. non vi può essere naturalmente nessuna risposta a queste domande, il suo essere come la sua origine si annullano nel suo presente ripetuto all’eccesso e alla noia. Il pettegolezzo, l’unica voce sul suo passato, è allora come una busta vuota, dead essa stessa, come le lettere che vorremmo trovare al suo interno.

Più in generale, e per chiudere, la cifra di B. sembra essere il «non voler affatto, un nulla di volontà piuttosto che una volontà di nulla (il negativismo ipocondriaco)»8. B. è un personaggio affatto universale ma anche e soprattutto affatto particolare, individuale, «I am not particular». Il suo essere è singolare, nel toccarsi di genere e specie, universale e particolare, in una mancata operatività di ciò che dovrebbe unirli e di ciò che li fa essere quel che sono. Lo scrivano non è un essere privo di carattere, ma piuttosto un essere qualunque (Quodlibet9), la cui essenza è la negazione assoluta di ogni carattere, l’irreparabile abbandono all’assenza di caratteri o segni. Questi personaggi originali, come il Nostro, queste singolarità, né particolari né universali, «possono sopravvivere solo diventando pietra, negano la volontà, e si santificano in questa sospensione»10. Una felice inoperosità che non è altro poi che la sospensione di ogni potenza, di ogni poter fare (e non fare): «Bartleby, cioè uno scrivano che non cessa semplicemente di scrivere, ma preferisce di no, è la figura estrema di quest’angelo, che non scrive nient’altro che la potenza di non scrivere»11. L’esperimento del B. è un esperimento che non ha verità, di cui la verità non può essere constata (chi può verificare, a mo’ di esperimento, una frase insignificante come quella di B.?), ma che apre alla verità standole un passo dietro. La «formula» apre e mostra lo spazio del potere dove falsità e verità non sono ancora definite ma, indistinguibili a occhio nudo, lottano in una contesa primordiale: «La sua parola non è il Giudizio, che assegna a ciò che è stato la sua ricompensa o il suo perpetuo castigo, ma Palingenesi, Apokatastasis pantôn, in cui la nuova creatura raggiunge il centro inverificabile del suo verificarsi-o-non-verificarsi […] e qui» ovvero nelle Tombs, dove si conclude la novella, dove il Giudizio si assenta, la creatura Bartleby «è finalmente a casa [...], salva perché irredimibile.»12.

1 Tutte le citazioni, salvo ove indicato diversamente, sono estratte da H. Melville, Bartleby lo scrivano, Einaudi, Torino 1994.

2 G. Deleuze, G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet, Macerata 1993, p. 29

3 Come era «singularly sedate» il suo aspetto appena si presenta alla porta dell’ufficio per essere assunto. Si noti a margine che «singularly» è un termine che andrebbe tradotto a nostro parere, quasi per assonanza, con singolarmente e non, come fa Enzo Giachino, con stranamente. Con quest’ultimo termine, certamente più fedele al testo originale e all’uso linguistico, si perde tuttavia un possibile aggancio alla lettura di Deleuze e Agamben che per noi risulta essere di decisiva importanza.

4 G. Deleuze, G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, cit., p. 19.

5 Ibidem

6 Ivi, p. 87.

7 Ivi, p. 44.

8 Ivi, p. 29

9 Letteralmente ciò che piace ma si veda ad esempio quodlibet ens est unum, verum, bonum seu perfect dove è da tradurre nel senso di qualunque, qualsivoglia, indifferentemente.

10 G. Deleuze, G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, cit., p. 29.

11 G. Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 35.

12 G. Deleuze, G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, cit., p. 89.

Simone Raviola

Ha studiato Filosofia tra Verona, Milano e Fribourg (CH). Si interessa di ontologia politica, letteratura europea ed estetica del contemporaneo. Co-dirige la rivista sovrapposizioni ed è socio dell’associazione di produzione d’arte Landescape. Suoi contributi sono apparsi sulla rubrica Passaggi (Argo) e la rivista Chartasporca.

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