Stay Awake, Be Ready, di Pham Thien An – Un one-shot film idiosincratico
Sull’angolo di una strada, assistiamo alla misteriosa conversazione tra tre uomini. Nel frattempo, si verifica un incidente stradale. La notte ci offre uno schizzo di vita, un vivace spaccato di realtà.
Stay Awake, Be Ready (Hãy tỉnh thức và sẵn sàng), diretto da Pham Thien An, Vietnam, Corea del Sud, 2019, 14’
Stay Awake, Be Ready è un one-shot film del tutto idiosincratico. Perlomeno rispetto ai one-shot films che l’hanno preceduto, il cui numero, pur esiguo, comprende opere dall’indiscutibile potenza. Con tale particolare tipologia filmica si sono cimentati Hitchcock (a lui va attribuita la paternità di tale “genere”), Sokurov, Noé, Iñárritu. Eludendo la differenza tra piani sequenza effettivi (cfr. Victoria, dir. S. Schipper, 2015) e percepiti come tali grazie al sapiente uso di tagli fantasma (cfr. Nodo alla gola, or. Rope, dir. A. Hitchcock, 1948), sarà sufficiente tracciare un breve e lapidario excursus per rendersi conto che, quando un film consiste in un’unica inquadratura, l’intento registico è essenzialmente quello di forzare ai limiti massimi il processo di immedesimazione spettatoriale. Basti notare che gli one-shot films spesso coincidono con narrazioni avataristiche condotte in POV, totalmente o per ampie sezioni (cfr. Arca russa, or. Русский ковчег, dir. A. Sokurov; Enter the Void, dir. G. Noé, 2009[1]), e che, anche quando questo non accade, il radicamento in un protagonista-avatar è comunque fortissimo e spesso coincide con l’impiego di una third-person perspective (cfr. Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance), dir. A. G. Iñárritu, 2014; Enter the Void; 1917, dir. S. Mendes, 2019). Laddove a incarnare lo sguardo manca un corpo antropomorfico deputato, subentra lo spazio, (de)limitato, in cui avviene l’azione. Per le intrinseche limitazioni tecniche legate al piano sequenza, gli one-shot film spesso coincidono, topograficamente, con un unico luogo, più o meno ampio. Dall’appartamento di Nodo alla gola, passando per l’Ermitage di Arca russa, fino alla Berlino notturna di Victoria. Ecco che il one-shot film coincide con un’analisi profonda di un corpo, sia esso antropomorfico o geografico. Abbiamo parlato di lungometraggi, ma potremmo richiamare alla memoria -prima di riferirci nuovamente all’opera di Thien An- cortometraggi come Wind (or. Széi, dir. M. Iványi, 1996), o Händelse Vid Bank (dir. R. Östlund, 2009). A mettere radicalmente in discussione le coordinate canoniche del one-shot film è stato Gaspar Noé con il già citato Enter the Void, in cui lo spazio si dilata sotto l’egida di uno sguardo spiritualizzato onnipotente, ma anche -e soprattutto- con il precedente Irréversible (2002), in cui il piano sequenza unitario coincide -paradossalmente- con un inversione temporale à la Memento (dir. C. Nolan, 2000). Tali opere scindono irrimediabilmente piano sequenza e trinità aristotelica, pur ribadendo la coessenzialità dell’elemento corporeo, carnale (centrale in tutta la filmografia di Noé) con un certo tipo di inquadrature unitarie.
In Stay Awake, Be Ready il revisionismo, radicale quanto quello di Noé, avviene per sottrazione, e non per ipertrofizzazione.
L’angolo di una strada vietnamita, in campo lungo. Per quattordici minuti, eterni nella loro icastiità negativa. Voci fuori campo sovrastano l’immagine, ma è impossibile attribuirle a qualcuno. Lo sguardo vaga incerto, cercando il loro referente, ma il tentativo è frustrato in prima istanza dal piano adottato dal regista, e, consequenzialmente, dalla sua densità “demografica”. La strada è affollata, ed è impossibile attribuire le voci ascoltate al labiale di uno degli attanti. Poi, un improvviso incidente d’auto. Ancora una volta, fuori campo. Tutto ciò che di rilevante succede è relegato alla dimensione dell’ignoto, e questo avverrà fino al termine del cortometraggio. Il film di Pham Thien An coincide con uno shot fenomenologicamente anintenzionale, che non mira, specificamente, a nulla. Né ad un corpo, né ad un’azione, né ad un luogo poiché, a ben vedere, di quella cittadina che rimane innominata e illocata non veniamo a conoscere che uno scorcio insufficiente a qualsivoglia identificazione. L’autore della Poetica fuggirebbe inorridito alla proiezione di una simile mostruosità. Nell’universo visuale di Thien An non vige alcuna gerarchia e, lungi da far coincidere l’ottica della macchina da presa con il POV di un avatar diegetizzato, il cineasta rilancia qualsiasi operazione di discernimento allo spettatore che, di fronte a tale idiosincrasia, non può sentirsi che smarrito e affascinato.
[1]Opera che, pur non consistendo in un’inquadratura unitaria, si configura come la reificazione visuale il più fedele possibile al punto di vista individuale: non assistiamo semplicemente alla quotidianità di Oscar (Nathaniel Brown), usando i suoi occhi come finestra; penetriamo invece nella sua psiche, e visualizziamo, con e attraverso lui, i suoi ricordi traumatici. Qui, come in Arca russa, POV e piano sequenza coesistono indissolubilmente.