Psicanalisi, istituzione, soggetto. Intervista a Giovanni Leghissa (II° parte)

Sara Fontanelli: Atto filosofico e atto analitico: permane ancora, nella vulgata, l’idea che il primo sia solo conoscitivo e il secondo solo etico e terapeutico. Sappiamo invece quanto la psicoanalisi possa ricordare alla filosofia l’alterità che ha escluso in luogo di fondazione e quanto la filosofia stessa si sostenga sul non sapere. Quale possibilità è la psicoanalisi per la filosofia?

In Mal d’archivio. Un’impressione freudiana (1995), Derrida coglie la portata rivoluzionaria che la psicoanalisi arrecherebbe nella problematica dell’archivio. Senza impressione, niente archivio. E la psicoanalisi è scienza dell’impressione, della traccia, dell’impronta.

Quale dunque il rapporto tra psicoanalisi e archivio e cosa significa immettere nel discorso dell’istituzione il desiderio e il godimento? 

L’ultimo Lacan definisce in termini sprezzanti il discorso dell’Università. È una variante del discorso del padrone?

Giovanni Leghissa: Il discorso universitario è complice del discorso del padrone per ragioni banali, riconducibili a dinamiche istituzionali, che fanno sì che la filosofia non si coltivi né nei salotti né nelle accademie, ma in un’istituzione pubblica come l’università. Il padrone dell’università è lo stato, dunque il discorso filosofico deve render conto allo stato delle proprie operazioni. Deve in qualche modo non introdurre elementi di eccessivo disturbo nell’omeostasi del sistema dei saperi.

I saperi servono a formare élites o a implementare una politica di potenza, pensiamo all’apparato scientifico sorretto dal sapere universitario. In ultima analisi le scienze della natura e le scienze fisico-matematiche, fino ad arrivare alle scienze dell’artificiale, servono anche a costruire armi sempre più raffinate, poiché gli stati sono in perenne stato di guerra. Dovranno quindi disporre di arsenali militari sufficientemente agguerriti. Per impedire la guerra, bisogna disporre di un sistema d’armi migliore di quello dei propri avversari. Pensiamo alla cyber science: le scienze artificiali sono strumenti di guerra; Google è anche strumento di guerra, inserito in quel teatro strategico che è il WWW.

La filosofia, come tutte le altre discipline che si insegnano all’università, volente o nolente, direttamente o indirettamente, è complice del discorso del padrone. Che la psicoanalisi non venga insegnata all’università è in questo senso un fatto positivo, significa che continua a mantenere un ruolo di disturbo, che non può strutturalmente essere complice del discorso del padrone, laddove per padrone non intendiamo il padrone capitalista ma semplicemente il decisore, colui che sta al vertice di una struttura organizzata gerarchicamente. (Non c’è nulla di male, è bene precisarlo, nel fatto che qualcuno o qualcosa comandi e decida; purtroppo, quando si evoca il “discorso del padrone”, si è subito portati a pensare che sarebbe bello vivere in un mondo senza padroni: ma se i collettivi sono strutturati gerarchicamente, c’è per forza un’istanza che decide; potere e organizzazione sono due concetti indissolubilmente legati, servono a descrivere il medesimo fenomeno, ovvero la strutturazione di un collettivo).

La psicoanalisi disturba perché introduce il tema del desiderio, ossia dell’indecidibile, della non saturabilità dei saperi. La rivoluzione epistemica, riflesso di una rivoluzione politica, che si avrebbe introducendo la psicoanalisi nell’università, sarebbe pari a quella prodotta se introducessimo paradigmi sistemico-cibernetici (il cosiddetto paradigma della complessità), se smobilitassimo i confini tra discipline. In ultima analisi, il soggetto desiderante non è molto diverso da una macchina di Ashby, lo vede bene Lacan nel Seminario II. In entrambi i casi, in una macchina di Ashby o in un soggetto desiderante come quello descritto dalla psicoanalisi, abbiamo a che fare con l’indecidibile, con l’impossibilità di predeterminare gli stati futuri del sistema. Il mio desiderio è, in termini psicoanalitici, ciò che mi spinge a fare cose che ignoro, a partire da ragioni che, a loro volta, sono strutturalmente ignorate. Non le conoscerò certo con l’analisi. In analisi incontro l’inconoscibile, do dei nomi all’inconoscibile, ma l’inconoscibile resta tale. Questo vale anche per gli stati futuri di una macchina. Un sistema autopoietico non predetermina in anticipo i propri stati futuri. Reagisce agli stimoli interni ed esterni, non diversamente dal sistema psichico basato sull’inconscio.

Introdurre elementi di indecidibilità nel sistema dei saperi sarebbe sicuramente rivoluzionario, ci farebbe fare dei salti di qualità enormi, non perché conosceremmo cose nuove, ma perché situeremmo in maniera diversa il soggetto della conoscenza, lo renderemmo un elemento contingente tra altri. Questo è problematico perché comporta un elemento di non padronanza difficilmente accettabile in termini organizzativi.

SF: Nel 1980 Lacan scrive la propria Lettre de Dissolution, dissolvendo quanto ha fondato. Nello stesso anno la redazione di “aut aut” accoglie la dissoluzione in cui Lacan ci rischia, scegliendo di partire da Lacan.

Esce quindi nel gennaio 1980 il numero di “aut aut” A partire da Lacan (vol. 177-178), seguito nel 2009 da Leggere Lacan oggi (vol. 343). A quarant’anni da quel primo, storico, numero, esce nel settembre 2020 Ripartire con Lacan. Quale il senso del movimento, della danza, di “aut aut” con Lacan?

GL: Bisogna considerare la biografia intellettuale del fondatore di “aut aut”: Enzo Paci. La sua ultima opera si intitola Idee per un’enciclopedia fenomenologica: in questa raccolta è contenuto anche un saggio di Freud, di cui Paci si era sempre occupato. Lo ha sempre fatto da fenomenologo, da autore che studiando la coscienza si accorge che c’è l’inconscio. Ma l’ha fatto soprattutto immaginando che l’enciclopedia fenomenologica sia un’enciclopedia che non ha un centro, ovvero che sia una rete di saperi tenuti assieme dalla filosofia in quanto “matto”. Evoco qui una figura dei tarocchi: nel mazzo di carte il matto non ha numero ma è come lo zero, il quale è ciò che fonda tutta la serie delle possibili identificazioni archetipiche – come lo zero fonda la serie numerica. La filosofia ha una funzione non dissimile dal matto nei tarocchi, serve a indicare i luoghi di non sapere, dentro al sistema dei saperi. Non è un caso che una rivista come “aut aut”, fondata da Paci, si sia sempre occupata di Lacan e lo abbia fatto nei momenti – lei nominava l’80 –in cui era chiara l’impossibilità di restare fedeli a un unico paradigma filosofico capace di comprendere le azioni umane, la politica, l’etica. Fino a quel momento il paradigma dominante era dato dal marxismo, con le sue varianti (la tradizione marxista italiana è ricca e articolata, con figure in conflitto tra loro). Il dibattito all’interno del marxismo italiano non coincide con la totalità del dibattito filosofico nel secondo dopoguerra ma è una sua parte consistente. Il marxismo italiano non è mai stato dogmatico ma ha sempre incorporato in sé anche altre istanze, pensiamo al destino di Nietzsche: il marxista ortodosso che legge La distruzione della ragione di Lukács non legge Nietzsche, perché lo considera il tipico rappresentante della decadenza borghese. In Italia però Vattimo fa di Nietzsche, con Il soggetto e la maschera, quell’autore che ci permette di concepire un progetto di liberazione e di emancipazione di tipo innovativo e radicale. I marxismi italiani sono ricchi e variegati, ma sono pur sempre marxismi, riconducibili a un’unica matrice. Quando ci si accorge che non basta più una matrice concettuale per pensare al presente, per formulare un pensiero critico sul presente, viene spontaneo rivolgersi alla psicoanalisi. “aut aut” è stata la prima e tra le più importanti riviste di filosofia italiane ad aprirsi alla psicoanalisi perché questa permette di incontrarsi con l’altro rispetto alla filosofia. Il rischio dal quale bisogna guardarsi è di includere il discorso psicoanalitico al proprio interno: quando il filosofo parla con gli psicoanalisti, tende spesso a inglobarli, a ridurre la psicoanalisi a una posizione filosofica tra altre, mentre la psicoanalisi serve alla filosofia se e solo se viene riconosciuta come altro, perché si confronta non con un sapere ma con il non sapere che si manifesta nel sintomo. Solo se la filosofia accetta di confrontarsi con un non sapere può rendere produttivo l’incontro con il mondo in generale, là dove per mondo si intende tutto ciò che accade. “aut aut” è li a mostrare come si possano incrociare filosofia e psicoanalisi in modo produttivo per la filosofia. Lacan stesso è stato lettore non solo di Lévi Strauss, Saussure e Cantor ma anche di Heidegger, Hegel, Merleau-Ponty, quindi ha variamente intrecciato il proprio discorso col discorso dei filosofi.

 

SF: La nostra intervista avviene in tempi pandemici. Nello spettacolo In virus veritas che si è tenuto quest’estate al teatro Miela, col suo maestro Pier Aldo Rovatti, lei ha proposto un profilo psicoanalitico del virus. Il virus come fantasma, cosa può dirci?

GL: Come ci insegna Lacan, senza fantasma niente identificazione, senza fantasma niente relazione oggettuale, senza fantasma niente costruzioni immaginarie dotate di senso.

I fantasmi abitano ogni operazione di senso, anche quella scientifica. Il discorso scientifico non si occupa dei fantasmi ma è abitato dal fantasma della conoscenza, della volontà di sapere, da quella volontà di potenza che fa dire che conoscere è meglio che non conoscere, laddove la pretesa di conoscere rimanda a una possibilità di dominio (dicendo questo ovviamente non voglio minimamente mettere in discussione il fatto che le teorie scientifiche contengano enunciati che hanno la proprietà di essere veri, che possono cioè descrivere stati del mondo; esplorare la volontà di verità e metterla in questione non significa mettere in questione il valore di verità, ovvero l’oggettività, del discorso scientifico, il quale, a differenza del discorso artistico, o di quello giuridico, o di quello del senso comune, è l’unico che possa enunciare il vero). Non c’è costruzione di senso che non sia abitata da un fantasma, da una microstruttura narrativa inconscia che permette di articolare sensi possibili, (occultando la propria origine mi verrebbe da dire “biologica”). Qualunque costruzione di senso è abitata da un non senso che si condensa in figure. Possiamo dirlo altrimenti convocando sulla scena il ruolo delle metafore. Ogni argomentazione è abitata anche da elementi metaforici e retorici, i quali per loro natura non sono traducibili in un discorso rigoroso perché rimandano alla corporeità, rimandano a un nostro abitare il mondo che è di tipo essenzialmente narrativo. Le operazioni di sense-making che facciamo in quanto abitatori di uno spazio sono operazioni corporee. La densità figurale del metaforico, del retorico in generale, è immediatamente connessa alla nostra corporeità, al fatto che siamo corpi che percorrono uno spazio fisico.

La componente puramente concettuale di ogni argomentazione implica invece la sparizione dei corpi, per cui quando operiamo con i concetti siamo enti disincarnati che pensano (e non potrebbe essere altrimenti: pensando facciamo appunto uso di concetti, i quali non sono natural kinds). Fatta questa premessa, il virus nella misura in cui non ci è noto nelle sue caratteristiche scientifiche – a meno che non ci mettiamo a studiare virologia da un lato e epidemiologia dall’altro – non ci è accessibile direttamente, ma solo in forma fantasmatica. È specchio di paure di altro tipo, in primis la paura della morte. Siccome morire non è piacevole (men che meno se si muore soli e intubati in una stazione di terapia intensiva), il virus ci ricorda i conti non fatti con la morte. La mia ipotesi, assumendo però una postura che riconosco come paranoica – intendendo per paranoia quel discorso che pretende di fare uno – è che se fossimo tutti filosofi in senso classico, socratico, non avremmo paura del virus, perché avremmo fatto i conti con la morte, avremmo messo in conto la morte come premessa necessaria del godimento. Se un ente gode, non ha paura della morte per definizione, perché sa che il godimento è legato alla contingenza. Ma siccome innanzi tutto e per lo più non siamo filosofi (anche se magari di mestiere insegniamo filosofia o scriviamo libri di filosofia), dobbiamo fare i conti con una struttura fantasmatica che è di tale potenza da incrociare altre strutture fantasmatiche: potere, nemico, straniero, ordine. C’è per esempio un amore per l’ordine nell’accettare le regole che ci vengono imposte: facciamo comunità, siamo tutti uniti nella lotta contro il virus. Oppure riconosciamo la nostra insofferenza verso la legge, che è sempre un modo per stare dentro la legge. Il virus in quanto fantasma viene a condensare, nel senso psicoanalitico del termine, nel senso cioè della Verdichtung freudiana, l’impossibilità strutturale di conciliare il godimento con qualunque ordinamento possibile. Rende visibile il fatto che gli ordinamenti, intesi come strutture sociali, sono limitanti: qui io vedo la natura fantasmatica del virus. Ci costringe a fare cose che altrimenti non faremmo, a essere obbedienti nei confronti dell’ordine costituito, e ci mostra che ogni ordine costituito limita il godimento – ma questo dovremmo averlo saputo già prima!

Se c’è godimento non c’è ordinamento sociale: ecco confermata la natura rivoluzionaria della psicoanalisi in quanto discorso che mette a tema il fantasma. Perché la psicoanalisi, insistendo sulla positività intrinseca del godimento, ci invita a dire – tra le altre cose – che siamo soggetti sovrani solo quando godiamo (a meno che non si voglia dire, e sarebbe pure plausibile dirlo, che il solo gesto sovrano consiste nel suicidio).

Giovanni Leghissa insegna Epistemologia delle scienze umane, Fenomenologia e Filosofia della cultura presso l’Università degli Studi di Torino. Redattore di “aut aut”, direttore di “Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea”, ha curato l’edizione italiana di opere di Derrida, Blumenberg, Husserl, Overbeck, Tempels e Hall. Tra le sue pubblicazioni: L’evidenza impossibile. Saggio sull’immaginazione in Husserl (LINT, Trieste 1999); Il dio mortale. Ipotesi sulla religiosità moderna (Medusa, Milano 2004), Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione (Mimesis, Milano 2005), Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione della modernità (Mimesis, Milano 2007). Neoliberalismo. Un’introduzione critica (Mimesis, Milano 2012). Postumani per scelta. Verso un’ecosofia dei collettivi (Mimesis, Milano 2015). (Con Giandomenica Becchio:) The Origins of Neoliberalism (Routledge, London 2016), Per la critica della ragione europea (Mimesis 2019). Si occupa di fenomenologia, del rapporto tra filosofia e psicoanalisi, del rapporto tra religione e modernità, epistemologia dell’economia, pensiero ebraico contemporaneo, filosofia del postumano, filosofia interculturale, Postcolonial e Gender Studies.

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Postumano, trascendentale, sistemi. Intervista a Giovanni Leghissa (I parte)