Postumano, trascendentale, sistemi. Intervista a Giovanni Leghissa (I parte)
Sara Fontanelli: In Postumani per scelta. Verso un’ecosofia dei collettivi (Mimesis, 2015) e in Mondi altri. Processi di soggettivazione nell’era postumana a partire dal pensiero di Antonio Caronia, (Mimesis, 2016), propone una distinzione terminologica e quindi concettuale tra postumano e transumano. Tale distinzione ha a che fare col modo di concepirci in quanto “animali vulnerabili”. Cosa distingue il postumano dal transumano e che spazio è concesso, nel postumano, alla finitezza e al nostro esser consci della contingenza che ci caratterizza in quanto mortali?
Giovanni Leghissa: Non regna un consenso generalizzato perché ci sono tante forme di postumanesimo, quanti sono gli autori che se ne occupano. Non si può parlare ancora di nuovo paradigma ma ci sono più autori che lavorano con questo concetto e al di sotto di questa etichetta. Sono ricostruibili delle tendenze predominanti. Quelli che potremmo chiamare transumanisti (termine peraltro usato da loro stessi) vorrebbero eliminare la finitezza e la vulnerabilità degli umani ipotizzando che, nella fase della storia della tecnologia in cui siamo entrati, disponiamo di risorse tali da permetterci un salto nel nostro processo di speciazione: diventiamo umani in modo diverso, ossia la vulnerabilità che da sempre ci caratterizza può essere messa da parte, la morte può esser vista finalmente solo più come una sorta di disfunzione, di malattia, di incidente di percorso, potrebbe essere insomma superata. Esistono narrazioni e utopie molto precise in questo senso, nonché tentativi concreti, pensiamo all’ibernazione. Si tratta di una mitologia tecnocentrica, incentrata sulla valenza trasformativa delle nuove tecnologie, in particolare delle biotecnologie, che fa presagire la possibilità (e la rende auspicabile) che si superi la nostra condizione umana finita e vulnerabile. Tuttavia, se ragioniamo in termini postumanistici, questo insieme di atteggiamenti altro non è che un potenziamento dell’umanesimo tradizionale. Gli umanisti da sempre ritengono che l’uomo sia diverso dal complesso degli altri enti, che abbia un ruolo speciale nel dominio dell’essere e che meriti un destino connesso al suo essere detentore di parola e costruttore di architetture di pensiero in virtù del linguaggio. La capacità di produrre artefatti viene vista come la cifra di una diversità e superiorità.
Questo discorso ci lascia insoddisfatti da più punti di vista: nell’ambito del pensiero postumanistico operano autrici che portano avanti un discorso femminista antisessista – sulla scorta di Derrida e Foucault – le quali hanno mostrato come l’umanesimo sia stato, in tutte le sue versioni, complice non solo di discorsi che stanno a fondamento della democrazia, della tolleranza, dei diritti umani, ma anche di discorsi che hanno consentito al maschio, bianco, possidente, europeo o americano, imperialista, colonialista, di difendere i propri privilegi. La critica femminista all’umanesimo è poi in parte confluita nel paradigma postumanistico. In primis Donna Haraway ha mostrato i limiti del discorso umanista classico, e quindi del discorso transumanista. Non possiamo difendere un’idea tradizionale di umanità, veteroumanista, assunta la consapevolezza che questa si è intersecata a discorsi che, direttamente o indirettamente, hanno legittimato i suddetti privilegi. In questo senso il postumanesimo si distingue radicalmente dal transumanesimo.
La posta in gioco è eminentemente politica: qui si ha un discorso che aspira a costruire in modo nuovo i legami collettivi e amplifica la tendenza ugualitaria del vecchio umanesimo, estendendola anche a specie non umane. Una parte consistente del postumanesimo è l’antispecismo, idea secondo cui l’uomo è un animale tra altri esseri viventi, compresi animali e piante.
Ma il postumanesimo non si ferma qui: abbandona la concezione del rapporto uomo-tecnica che ha innervato il discorso veteroumanista, in cui l’uomo costruisce artefatti ed è superiore ad essi perché li concepisce, li crea, li domina. Poi si accorge che gli sfuggono di mano, ma questo è solo un incidente di percorso, tipo la bomba atomica, come nel film Il Dottor Stranamore. In un contesto postumanista si ammette che l’uomo è animale prostetico da sempre. Come tutti i primati, ma non solo (pensiamo a polpi, ai corvi). Insomma, essere postumanisti significa essere darwiniani, e quindi riconoscere che tutti gli animali costruiscono la propria nicchia ecologica, facendola abitare da “artefatti” da loro costruiti (a cominciare dalle proprie funzioni metaboliche). L’uomo in questo non è diverso da altre specie viventi. Si tratta di riconoscere il carattere prostetico di tutte le nostre attività, estendendo il campo semantico della nozione di artefatto: anche le istituzioni umane sono artefatti che costituiscono la nostra nicchia ecologica. In questa prospettiva si riconosce all’uomo una posizione non superiore all’ambiente in cui abita. Una volta constatato che esiste una specie, in un ambiente da essa abitato, si deve prendere atto – e i biologi evolutivi lo fanno da tempo – che le specie viventi contribuiscono a modificare l’ambiente da cui sono a loro volta modificate, e ciò vale dalle amebe agli uomini.
La nicchia ecologica abitata dall’uomo è abitata anche da artefatti, da enti non viventi, che possono essere semoventi, come i robot o i Surface-to-Air Missiles. Si tratta di immaginare delle politiche ecologiche che permettano di ripensare il nostro rapporto con l’ambiente cosiddetto naturale, in modo da arginare la catastrofe ecologica che incombe su di noi. Il postumanesimo ci fa riflettere sul fatto che, se siamo giunti a distruggere il pianeta, questo dipende da alcuni assunti teorici, metafisici, ben precisi. Ciò dipende dall’antropologia che sta alla base delle metafisiche portate avanti dalle vecchie concezioni umanistiche, che vedevano nell’uomo, in quanto essere parlante, un ente dotato del diritto a dominare l’ambiente in cui si trova. Le cose non stanno così, quindi è opportuno immaginare un diverso rapporto con l’ambiente da noi abitato.
La posta in gioco del postumanesimo è sia teorica che politica. Teorica perché pone il darwinismo alla base di un’antropologia, e quindi anche di un’etica. Politica perché il postumanesimo – pensiamo a Donna Haraway Cary Wolfe, Bruno Latour – ci invita a immaginare una democrazia in cui hanno una qualche forma di standing tutti gli enti, non solo gli umani, ma anche i viventi non umani, e in qualche modo, idealmente, anche i technological devices che sono parte del nostro quotidiano.
SF: In L’animale che dunque sono (2006), Derrida mostra come l’animale non solo mi veda ma abbia anche un punto di vista su di me. Il solo vedere e l’avere un punto di vista non sono lo stesso. Questo gioco di sguardi interessa il postumano, significante che è entrato nei nostri discorsi, e ha consentito, o forse avrà consentito, agendo retroattivamente, l’abbandono di un certo veteroumanismo, per dirla con Niklas Luhmann. Questo guadagno è ottenuto anche attraverso lo “sforzo” che è ragionare in termini sistemici. Quali i guadagni teoretici di una filosofia che ricorre alla teoria dei sistemi?
GL: Siamo ben lungi dall’aver raggiunto un consenso su queste questioni. Un atteggiamento – o, in senso lato, un modo di ragionare – sistemico è ben lungi dal potersi affermare, perché significa sminuire in qualche modo l’autonomia delle singole discipline, riconoscere che i confini tra saperi sono porosi e che la macchina che produce conoscenza è articolata, composta da tanti sistemi. Invece ogni disciplina, in quanto sistema autopoietico, tende ad autoriprodursi e a mantenere la propria specificità, che la differenzia da altre discipline. Le discipline sono istituzioni come tutte le altre, che lottano per la propria sopravvivenza e autonomia, per il mantenimento di confini solidi tra se stesse e l’ambiente. Un’impostazione filosofica di tipo sistemico mostra la porosità tra campi del sapere, ma postula anche che questa porosità sia positiva! Non solo ipotizza ma anche pratica una collaborazione tra discipline, che non è ancora data per ragioni istituzionali. Se fosse data, il guadagno filosofico sarebbe enorme. Potremmo riformulare una serie di vecchie questioni, tra cui quella della fondazione, che mi è molto cara. Potremmo dire che fondare è un atto tra altri. Fondare non significa metter capo a una fondazione ultima ma assumere un punto di vista, uguale a tanti altri, all’interno dei campi del sapere. Significa chiedersi quali sono le condizioni di possibilità di un sapere, senza pretendere che le risposte date siano esaustive. Significa porre la classica domanda sulla fondazione dei saperi ma al tempo stesso riconoscere la natura contingente sia dell’atto posizionale di colui che pone la domanda sia delle risposte che vi si danno, perché ad esempio dovremmo convocare sulla scena i saperi che vediamo inglobati dalle scienze cognitive, che hanno a loro fondamento la neurologia e quindi la biologia evolutiva, e si dovrebbe riconoscere che, in fondo, pensiamo in quanto eredi dell’esplosione cambriana. E qui diventa chiaro il paradosso della fondazione: se le condizioni di possibilità dell’atto di pensiero vanno cercate nella storia evolutiva dei viventi, vuol dire che si fa appello a un’istanza empirica, e che quindi si rende vano ogni tentativo di attribuire alla sfera categoriale, entro cui il pensare si articola, quella purezza che di solito essa è supposta possedere. Si rende, così, contingente ogni nostra operazione di pensiero. Ma questo non significa sminuire la portata dell’atto di pensiero, che si giustifica nel suo stesso posizionarsi, nel suo porsi in essere, nel produrre determinati effetti. Il soggetto che pensa si fa abitatore del regno in cui operano, in modo autonomo, i concetti, i quali non sono generi naturali, nel senso che non hanno lo statuto ontologico di un albero o di una pietra. Attraverso l’incrocio con questa sfera in cui si articola il sistema dei concetti il soggetto non esce dal sistema della natura, ma permette alla natura (se vogliamo usare ancora questo termine) di ripiegarsi su se stessa, di inflettersi e quindi di riflettersi.
L’effetto principale di un atto di pensiero articolato in questi termini comporta insomma l’accettazione del paradosso, e qui vedo il grande guadagno teoretico. Significa riconoscere che non si è esterni al sistema che si studia, e si compie un’operazione tra le tante possibili, che il sistema compie dovendo riflettere su se stesso.
SF: I filosofi sono osservatori di secondo ordine?
GL: Anche i filosofi sono tra i tanti osservatori di secondo ordine, investiti della funzione di riflettere su ciò che c’è. Prendiamo, per essere più chiari, l’aneddoto classico che interroga l’utilità o meno della filosofia, ossia Talete che guarda le stelle, non vede la buca, ci cade dentro, e la donna tracia lo deride.
La donna tracia è un’osservatrice dell’atto filosofico di pari dignità del filosofo stesso. Il filosofo ha il suo bel da fare nel guardar le stelle ed è giusto che lo faccia perché è compito suo costruire una teoria cosmologica che stia in piedi dal punto di vista teorico, che permetta di fare previsioni sul moto stellare per esempio, ma questo non lo rende superiore alla donna tracia che lo prende in giro quando cade nella buca.
SF: Serve a indebolire la presunzione dell’atto filosofico?
GL: Assolutamente sì. Alcuni dei grandi filosofi del Novecento hanno portato avanti essenzialmente questo programma: lei nominava Derrida, la decostruzione derridiana fa questo, pretende di mostrare come il sistema filosofico contiene faglie di non sapere, date dal fatto che il filosofo non può maneggiare concettualmente la totalità dei concetti che usa, perché è interno a quel sistema. Qui il discorso derridiano è praticamente identico a quello di Luhmann – non a caso Luhmann riconosce in Derrida un suo sodale, un compagno di strada. La decostruzione derridiana non ha la pretesa di risolvere questioni filosofiche, come fanno i filosofi analitici che si pongono problemi e trovano soluzioni (cosa che ovviamente bisogna continuare a fare, e nel modo migliore possibile!). La questione di fondo della filosofia non è un problema che possa essere risolto. Si tratta di riarticolare per l’ennesima volta la questione dell’atto posizionale con il quale comincia il pensiero in quanto tale, laddove la specificazione in quanto tale è essenziale, come insegna Derrida.
Si tratta di riarticolare il gesto inaugurale della filosofia mostrandone il carattere limitato, parziale, contingente, senza nulla togliere al fatto che quest’atto deve avere – de iure – una valenza fondativa.
SF: Abbiamo assistito nella storia della filosofia a sorti ora gloriose ora accidentate del trascendentale, dal trascendentale kantiano a quello husserliano al “quasi-trascendentale” derridiano, dato l’accostamento mimetico del gesto di decostruzione al gesto trascendentale.
Quale posto nella filosofia contemporanea per il trascendentale? Possiamo parlare in termini psicoanalitici di rimosso?
GL: Secondo me sì, è un’ipotesi su cui insisto sempre. Non che sia possibile fare in maniera compiuta una psicoanalisi della filosofia, però possiamo constatare che la questione del trascendentale è stata ampiamente messa da parte dal discorso filosofico corrente. Pensiamo a tutte le posizioni ontologiche oggi prevalenti. Ci si interroga, giustamente, sugli statuti ontologici dell’oggetto. Anche questa è un’operazione classica, da sempre i filosofi si pongono la domanda su che cosa c’è, rispondono che ci sono oggetti, si interrogano sull’oggettualità degli oggetti, sulle proprietà che devono o possono avere per poter essere definiti oggetti riconducibili a questo o quel genere. Qui le domande classiche della filosofia, come l’unità dell’uno, o la natura della relazione che lega i relata Un oggetto per essere tale deve avere una sua unità. Infine, oggi assistiamo a un proliferare di ontologie di varia natura, si parla di ontologie selvagge anche nel campo dell’antropologia culturale. Però nel far questo si rimuove il gesto trascendentale, che consiste “banalmente” nel chiedersi: cosa faccio quando conosco il mondo? O meglio: che cosa fa un soggetto in generale quando pone la differenza tra sé e il mondo? Ponendola in questi termini, vediamo la continuità tra Kant, Fichte, Hegel, Husserl, fino allo stesso Derrida, per arrivare infine a Luhmann, passando per Bateson e Ashby. È sempre la stessa domanda, che oggi può trovare risposte di natura paradossale. Il fatto che il paradosso sia visto per lo più come un errore logico è probabilmente la ragione per cui si elimina l’interrogazione trascendentale in quanto tale, ritenendola sterile, non portatrice di nuove conoscenze. Ovvio, invece, che se mi interrogo su “ciò che c’è” scopro cose nuove. Ovvio che è più produttivo un discorso ontologico perché aggiunge altri elementi all’elenco di ciò che c’è. In fondo le ontologie sono lunghi elenchi. Pensiamo alle grandi questioni filosofiche sorte attorno al libro di Lewis sui mondi possibili: qual è la natura dei mondi possibili, hanno altri statuti ontologici, sono diversi da questo, sono una variazione del mondo in cui esistiamo? Si aggiungono elementi al lungo elenco di ciò che c’è o potrebbe esserci. Ma, una volta fatto questo, dobbiamo continuare a chiederci chi è il soggetto che pensa, quali caratteristiche deve avere la soggettività del soggetto pensante, sia esso un robot, un angelo, un dio, una rete neurale, una super-intelligenza. E nel fare questa domanda ci collochiamo a un livello che precede la decisione in virtù della quale distinguo l’oggetto, di cui voglio descrivere le proprietà, da tutto ciò che costituisce il suo intorno.
SF: Si può parlare a questo punto di soggetto postumano e cosa della concettualità postumana si presta a implicazioni politiche?
GL: Una questione trascendentale posta in questi termini ha immediatamente implicazioni politiche. Chiedersi che cosa faccio significa non solo criticare le condizioni di possibilità del porsi del soggetto in quanto tale, ma anche criticare le condizioni di possibilità della posizione di un soggetto che parla in un’arena pubblica. Articolare la questione in questo modo significa chiedersi qual è la funzione pubblica del discorso filosofico, e dei discorsi teorici in generale. Significa chiedersi qual è la valenza pedagogica dell’interrogazione non solo su ciò che c’è, ma sulle condizioni di possibilità di ciò che c’è e dei discorsi su ciò che c’è. Convoco quindi sulla scena teorica il problema dell’istituzione, la questione della censura, dei finanziamenti della ricerca, del diritto: chi ha il diritto di prender parola, in quale contesto e a partire da quali condizioni? Questioni per loro natura extrateoriche, che però rendono visibile il carattere politico di ogni gesto teorico.
Per dirla in modo icastico: cancellare la domanda sul trascendentale significa cancellare la domanda sulla politicità dei saperi. Un approccio postumanistico, per l’appunto, immaginando che dobbiamo interrogarci su quello che facciamo in quanto animali, pone immediatamente la questione ecologica, rende politico il discorso filosofico perché chiede conto a ogni possibile teoria del suo impatto ambientale. È un altro modo non solo per elaborare teoricamente, ma anche per mostrare praticamente, la valenza politica di ogni discorso che gli umani fanno sulla realtà che li circonda.
SF: Alla Biennale Tecnologia di Torino (12-15 novembre 2020) si è riflettuto sul rapporto uomo-macchina. Il cyborg ci rischia in un esperimento di ibridazione. Qual è lo spazio per i processi di soggettivazione nel cyborg e come si sono ridefiniti i parametri dell’identità e dell’identificazione?
GL: Secondo me non sono cambiati più di tanto. So che quel che sto dicendo non viene tanto condiviso. Qualunque robot, anche un robot che superasse il test di Turing, rendendosi indistinguibile da un umano, probabilmente sarebbe un ente a cui non ascrivo desideri. Allora qui si potrebbe dire: sì, c’è una differenza radicale tra umani e non umani. Ma io avrei un’obiezione: che ne sappiamo del desiderio dell’altro in generale? Niente. Che ne sappiamo del godimento di un castoro, per citare Lacan? Se non ne sappiamo nulla dell’altro, se l’altro è una black box anche rispetto al suo desiderio, allora credo che le questioni dell’identità debbano essere affrontate non a partire dall’incontro con l’altro in carne ed ossa, umano o robot che sia, ma a partire dall’altro che ci abita. Quindi in termini psicoanalitici.
La psicoanalisi ritengo sia l’unica forma di sapere, per quanto ibrida, bastarda e spuria, che ci permette di articolare in modo filosoficamente compiuto le questioni dell’identità e dell’alterità. Perché postula che non confrontandoci con l’altro in carne ed ossa, bensì col nostro inconscio – ossia l’altro che ci abita – potremo rimodulare la questione della nostra identità; prendere atto che non siamo padroni di noi stessi, che siamo identici a noi stessi solo all’interno di processi di identificazione, a volte riusciti a volte no. Significa riconoscere che l’identità assunta per definire noi stessi (per poter dire io sono io), senza la quale non saremmo ciò che siamo, è grossomodo una stampella, una gruccia, un artefatto di cui ci serviamo di volta in volta per stare in piedi e tenere insieme una vita psichica che non è interamente riducibile all’identità di noi stessi con noi stessi. Si scopre grazie alla psicoanalisi – si può fare anche grazie alle neuroscienze o alla teoria dei sistemi, ma la psicoanalisi propone articolazioni più interessanti di questo discorso – che il nostro fissarci in maniera identica a noi stessi è un’operazione che facciamo a intermittenza: non solo perché alterniamo sonno e veglia, ma perché nella nostra vita sveglia siamo affetti da dimensioni psichiche non riconducibili al dominio dell’io. Ma allora, se le cose stanno in questi termini, definire l’identità significa riconoscere il carattere non solo parziale ma anche processuale delle identificazioni. E se dico processo dico storia. Ecco che così convoco, sulla scena della mia biografia – ossia la biografia dei collettivi ai quali appartengo – anche la biografia degli oggetti dei quali mi circondo e che costituiscono parte integrante del mio ambiente. Instauriamo legami affettivi con gli oggetti inanimati che ci circondano perché la loro presenza dà senso alle operazioni che compiamo sia in quanto membri di una tradizione culturale, sia in quanto protagonisti di una storia personale le cui tappe sono scandite proprio dagli oggetti che possediamo. A maggior ragione sono decisive le presenze degli umani che formano il piccolo collettivo di cui siamo parte (nessuno di noi abita la “società”, ognuno di noi opera entro un gruppo molto ristretto, nel quale sono possibili rapporti faccia a faccia). Qui è decisivo il fatto che gli umani con cui entriamo in relazione abbiano una Gestalt ben precisa (che non è il “volto dell'altro” di cui parla Lévinas!) la quale ci restituisce quell’immagine di noi stessi che avremmo solo guardandoci allo specchio. In questo gioco di specchi si articola la dialettica del riconoscimento: essi ci permettono una Anerkennung, ci permettono di riarticolare l’assunto hegeliano secondo cui ogni autocoscienza trova la sua Befriedigung solo in un’altra autocoscienza. Supponiamo che l’altro sia fatto come noi e immaginiamo che l’altro ci capisca, che sia capace di riconoscerci come soggetti desideranti, nella misura in cui noi lo riconosciamo come soggetto desiderante. Ed è in questo riconoscimento dei desideri che avviene il processo di identificazione. Ma è chiaro che in seno a tale processo la formulazione hegeliana dalla quale è pur necessario partire subisce una torsione radicale: in gioco non è l’incontro tra autocoscienze, tra soggetti trasparenti a se stessi, in gioco è l’incontro tra forme diverse di opacità, di non padronanza.
Se le cose stanno in questi termini, ed è così che si pone la questione dell’identità all’interno della psicoanalisi (sia freudiana che lacaniana, ma soprattutto lacaniana) ecco che acquistano un nuovo senso tutte le questioni storico-politiche classicamente affrontate dai filosofi: essere membri di un collettivo, avere valori comuni, lottare per una società più giusta, ritenere che la libertà sia un valore da difendere. Le questioni dell’etica e della politica trovano il loro giusto posto e peso solo all’interno di dialettiche del riconoscimento che alla base hanno la questione dell’identità, una questione che però ogni soggetto cerca di risolvere per conto suo (e può farlo solo così!), confrontandosi in primis con le istanze inconsce che lo abitano, immerso in quella solitudine a volte angosciante che ci mette di fronte all’ineludibilità del nostro desiderio. Non a caso desiderare per molti è un lusso che non ci si può permettere perché il confronto con l’alterità dell’inconscio risulta troppo costoso.
Giovanni Leghissa insegna Epistemologia delle scienze umane, Fenomenologia e Filosofia della cultura presso l’Università degli Studi di Torino. Redattore di “aut aut”, direttore di “Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea”, ha curato l’edizione italiana di opere di Derrida, Blumenberg, Husserl, Overbeck, Tempels e Hall. Tra le sue pubblicazioni: L’evidenza impossibile. Saggio sull’immaginazione in Husserl (LINT, Trieste 1999); Il dio mortale. Ipotesi sulla religiosità moderna (Medusa, Milano 2004), Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione (Mimesis, Milano 2005), Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione della modernità (Mimesis, Milano 2007). Neoliberalismo. Un’introduzione critica (Mimesis, Milano 2012). Postumani per scelta. Verso un’ecosofia dei collettivi (Mimesis, Milano 2015). (Con Giandomenica Becchio:) The Origins of Neoliberalism (Routledge, London 2016), Per la critica della ragione europea (Mimesis 2019). Si occupa di fenomenologia, del rapporto tra filosofia e psicoanalisi, del rapporto tra religione e modernità, epistemologia dell’economia, pensiero ebraico contemporaneo, filosofia del postumano, filosofia interculturale, Postcolonial e Gender Studies.