Appunti
Congiunzione efficace di nitidezza della scrittura e potenza dell’immagine, Appunti di David Watkins (postfazione di Giuseppe Nava, Arcipelago itaca Edizioni, 2023, 64 pp.) è un libro che ci sorprende per la sua delicata bellezza. Nelle trentacinque prose brevi che compongono l’opera si fondono armoniosamente ricerca lessicale, leggerezza della prosa e intuizioni vitali. Senza proclami politici né forzature stilistiche, e anzi con un’artificiosa, preziosa naturalità della scrittura e di ciò che dalla scrittura viene narrato. Le prose sono colte, ma non pedanti; lo stile è raffinato e privo di affettazione. Watkins descrive il mondo con la precisione del miniaturista, alternando ironia e serietà, con quel piglio scanzonato che bordeggia la novella; si sezionano così ricordi abbozzati, gesti lasciati a metà, tic inquieti, parole interrotte, pensieri che si muovono a mezz’aria indecisi come fila di nebbia, cianfrusaglie ed elementi architettonici. Le prose esprimono una totalità frammentaria di immagini, chiamiamola “memoria”, e l’immaginazione, sfumando, si confonde con la materia da cui procede.
Pubblichiamo qui due prose brevi contenute nel volume: Convivenze elementari, felice connubio di stile, nostalgia e ironia, e Prendere, gioiello di rara fattura.
Convivenze elementari
Sorvolano sulle faccende, lasciano fare, con quella specie di tatto e discrezione che li contraddistingue da sempre. Persino la lagnanza, in loro, si è come rischiarata via la pesantezza materica dei giorni. Le bollette, la pentola incrostata dentro il lavandino, la spazzatura ancora da buttare: mai sentito uno che aprisse bocca per così poco.
Hanno buone maniere. Non entrano nelle stanze, scivolano tra le cose. Fanno capolino dal quadernetto su cui prendi appunti, o sbucano nella voce di un passante, nel profumo delle strade. Li stani un po’ dappertutto, ti spostano il sorriso, mentre si iniettano in un clima. Ma poi se ne ritornano al fresco, in camera loro, si appoggiano lì da qualche parte, senza rumore, senza neppure chiudere la porta.
È che lasciano tutto aperto, sempre. Godono di un’integerrima distrazione. Tu parli parli, loro, finta di niente. Non ti resta che parlare come se tu non ci fossi. Alla lunga, finiscono per abituarti a un’altra forma d’ascolto con cui intendere le cose, a sentire come di traverso, senza star lì ad ascoltarsi troppo, quasi lasciando le parole, come una musica in lontananza, come qualcosa che si possa soltanto origliare.
Certo, sono molto più terra terra di quanto noi non si creda, ma agiscono teneramente, nella logica di un occhiolino. È come un cenno, come una volta che tenga assieme la prima e l’ultima, senza essere nessuna delle due. Ecco: la postura con cui tieni il bicchiere adesso, mentre te ne vai con le parole a vanvera tra le cose, quel modo di trattenere il gomito nell’aria, come in un vuoto di scena. Oppure queste gambe che si accavallano al momento giusto, sottolineando il loro stesso movimento, sì, ma senza dare troppo nell’occhio, senza fastidio.
Insomma qualcosa, nell’aria che ti circonda, mette in circolo una loro postura, una movenza qualunque. Ci si scambia il posto, il tempo appena di un’intesa, come in un’amicizia o in una piccola citazione.
Allora ti fa come ridere, questo modo che hanno di rimanerti addosso, li senti ancora ridere se ci pensi, i morti sono coinquilini ideali.
Prendere
Ogni volta che prendo un cazzotto in faccia, cosa che si ripete con una cadenza alquanto regolare, ciò che più mi colpisce non è l’impatto delle nocche, né la tigna dell’altro che sempre mi sovrasta e mi atterra, e nemmeno la stizza umiliata di ritrovarmi in una situazione che riveli, ancora una volta, la mia totale incapacità di resistere al male; a lasciarmi fisicamente attonito, piuttosto, è l’assenza di dolore che ne accompagna l’esordio, l’anestesia passeggera, né piacevole né spiacevole, che sta tra il cazzotto appena ricevuto e il dilatato momento a partire dal quale i suoi effetti cominceranno a farsi sentire. Come vi fosse una pigrizia inscritta nell’abbiccì delle mascelle, degli zigomi, dei dintorni oculari, una capacità tutta loro di resettare l’immediato convulso. Un’arte del temporeggiare. Lo stomaco, per esempio, è più ricettivo, risponde alla botta con foga intestina, e così le spalle e la schiena, sebbene in gradi diversi.
La faccia no, lei rimanda.
È comunque notevole che i pochi attimi di lucidità che scaglionano l’andare obliquo di questo intervallo, sospesi tra il colpo e il suo sentimento, non vengano mai messi a frutto per darsi alla fuga e mettersi in salvo, o per riparare, come che sia, al declino imminente. Tutt’al contrario, quel poco che resta di me mi si imbambola tutto in dettagli di poco conto: il colore dei lacci delle sue scarpe, l’odore nuovo della sua mano, il moto di risacca con cui i tanti testimoni della mia disfatta, quasi obbedendo a un’implicita coreografia, finiscono per mettersi in cerchio e fare il vuoto attorno all’accasciato che sono.
Ricongiunto alla fedele compagnia del pavimento, ridotto a un raso terra che mi mette a mio agio, misuro tutta la distanza che mi separa dal mio dolore.
Poi mi rialzo, sento come una voglia di chiedere scusa; torno a casa, e piango.