Feste barocche

Filippo Gagliardi, Filippo Lauri, Giostra dei caroselli, 1656, 231 x 340 cm, olio su tela, Museo di Roma, Roma.

L’epoca tradizionalmente definita Barocca coincide con il XVII secolo e riguarda, perlomeno nei suoi primi sviluppi, il territorio italiano, in particolare la città di Roma. A partire da Heinrich Wölflinn con Rinascimento e Barocco del 1888, si è potuto far luce sugli sviluppi in ambito scientifico, nonché sulla società civile e sulle Arti, che caratterizzano questo periodo precedentemente svilito. In La “Rettorica” e l’arte barocca Giulio Carlo Argan afferma che una delle principali cause che hanno contribuito alla considerazione del Barocco come momento di decadenza rispetto alla magnificenza rinascimentale è riconducibile all’idea di Arte in quanto strumento della Controriforma, e dunque «espressione di uno scadimento, in senso conformistico, di un’idealità religiosa». Per comprendere cosa effettivamente accada nel Seicento, Argan evidenzia come il famoso tema oraziano dell’«ut pictura poesis» non si strutturi più attraverso il binomio rinascimentale pittura-poesia, bensì si trasformi nel binomio pittura-eloquenza. Questa nuova concezione dell’Arte risulta profondamente legata a questioni di carattere filosofico, ed in particolare ad una “riscoperta” della Poetica e della Retorica di Aristotele. La retorica, in quanto pratica di persuasione, si adattava in modo eccellente a quelle che erano le nuove prerogative, i nuovi interessi, le nuove esigenze che animavano la società barocca, tanto da permeare ogni manifestazione artistica: l’arte non desidera più «suscitare l’ammirazione per la bellezza della sua forma o per la rivelazione delle qualità supreme della Natura» come nel Rinascimento, ora essa «mira ad esaltare delle possibilità di reazione sentimentale che sono già nello spettatore e che anzi, per esser comuni a tutti gli spettatori, costituiscono il carattere di una determinata società». Una delle condizioni di esistenza dell’arte diventa così il pubblico, parte integrante nella logica del discorso dimostrativo. Non solo, il pubblico assume un ruolo di rilievo all’interno dell’opera d’arte, in quanto è coinvolto attivamente dalla sua forza evocativa che produce l’impressione estetica. «La scienza della persuasione […] diventa un segno del Barocco. Ed è interessante notare come non sia soltanto alla base di tutta l’architettura del periodo (quei grandi complessi in cui retoricamente si persuade attraverso una globalità significante) ma soprattutto della festa intesa come meccanismo di dissimulato coinvolgimento di un popolo non amorfo» (M. Fagiolo dell’Arco, S. Carandini, L'effimero barocco. Strutture della festa nella Roma del ‘600).

Se in ambito letterario «è del poeta il fin la meraviglia» (Giovan Battista Marino, Il poeta e la meraviglia), anche in ambito artistico il precetto fondamentale diventa quello di stupire il pubblico al fine di persuaderlo. La festa diventa perciò la “forma simbolica” dell’epoca barocca, garantendo una vasta partecipazione e suscitando meraviglia negli spettatori; essa inoltre implica l’utilizzo un nuovo linguaggio che unifica tutte le pratiche artistiche, «comprese fra queste […] le arti dello spettacolo, le rappresentazioni teatrali, “Metafore rappresentanti un concetto per mezzo di Habiti e Sembianti diversi”, e anche i balletti, le cerimonie, i giochi, i tornei, poiché “Feste, Giostre, Balletti, Mascherate altra cosa non sono che Imprese vive e Metafore animate” (S. Carandini, Teatro e spettacolo nel Seicento; cita: E. Tesauro, Il cannocchiale aristotelico). «Per tutto il secolo, in occasione di feste e cerimonie civili o religiose, la città intera diventa una scena, attraversata lungo i principali assi viari da manifestazioni itineranti, processioni, cortei, trionfi, mascherate, mentre giochi, gare, passatempi diversi [...] prevedono particolari aree, grandi spiazzi nel tessuto urbano appositamente attrezzati e teatralizzati per l’occasione» (S. Carandini, cit.). Le vie e le piazze sono utilizzate come veri e propri spazi teatrali, gli apparati effimeri segnalano la presenza della “scena mobile e diffusa”, dove agiscono saltimbanchi, attori e musicisti.

François Collignon - Andrea Sacchi, La nave di Bacco, 1634, acquaforte, 41 x 44 cm, in Guido Bentivoglio, Festa fatta in Roma, Alli 25 di febraio MDCXXXIV, Vitale Mascardi, Roma, 1635.

François Collignon - Andrea Sacchi, Il carro di Fama, 1634, acquaforte, 41 x 44 cm, in Guido Bentivoglio, Festa fatta in Roma, Alli 25 di febraio MDCXXXIV, Vitale Mascardi, Roma, 1635.

Nonostante tale fervore caratterizzi buona parte dei più grandi centri artistici e culturali italiani del Seicento, il caso della corte pontificia si configura in maniera particolarmente complessa, sia perché nelle mani della Chiesa convergono potere politico e religioso, sia perché il XVII secolo è caratterizzato da una grave crisi spirituale, dovuta al dilagare della riforma protestante (1517), che sconvolge ed indebolisce profondamente l’istituzione pontificia. Costretta a convocare il Concilio di Trento (1545-1563), la Chiesa avvia così la Controriforma. Ogni forma d’arte, nella Roma controriformata, si fa portavoce del potere, in quanto strumento di persuasione e propaganda, al fine di rinnovare e restaurare il prestigio e la grandezza attraverso la meraviglia. A partire dal pontificato di Urbano VIII Barberini (1623), finissimo erudito e poeta latino, la Chiesa si impadronisce delle occasioni festive per un rilancio trionfalistico della fede attraverso l’immagine. I nipoti di Urbano VIII, Francesco e Antonio, e i pontefici che lo succedono, sono i protagonisti di questo programma di spettacolarizzazione della fede, che prevede festeggiamenti sempre più frequenti e pomposi. Le occasioni di celebrazione sono molteplici: durante la vita del pontefice, dal solenne Possesso di Roma alla cerimonia della fine, con il catafalco in San Pietro; le canonizzazioni dei santi, eventi piuttosto comuni in questo secolo; i giubilei, le Quarantore  e le processioni; ma anche avvenimenti di carattere più marcatamente profano, come l’elezione o la morte di un sovrano alleato, la nascita di un principe o l’arrivo in città di un potente straniero.

Gian Lorenzo Bernini, sia per lo straordinario consenso suscitato dalle sue realizzazioni artistiche, sia per il carisma di una personalità così creativa e allo stesso tempo ricettiva, sempre dedita al più spinto e immaginifico sperimentalismo, può essere considerato la figura centrale del Barocco romano, ovvero l’artista che ha dato il decisivo contributo nel fare della festa la forma artistica della Roma del Seicento. Il fatto che Bernini, scultore e architetto, sia stato anche uomo di teatro nel suo senso più ampio del termine - scenografo, scenotecnico, apparatore di feste - è testimoniato non solo dalla frequente collaborazione con Giulio Rospigliosi, figura centrale del teatro seicentesco, nonché l’autore principale delle messinscene del Teatro Barberini, eretto nel 1632, ma anche perché le sue opere, siano esse effimere o permanenti, manifestano «nell’arte la finzione del teatro e nel teatro il riflesso della vita» (M. Fagiolo dell’Arco, S. Carandini, cit.). Ogni sua opera è spettacolo, dallo scrupoloso studio del movimento dei protagonisti a una ricerca quasi sperimentale nella resa fisiognomica degli affetti (si pensi a Apollo e Dafne, alla Galleria Borghese di Roma), dal valore che viene conferito alla luce, all’idea di teatro-nel-teatro che permea per esempio il progetto della Cappella Cornaro, in cui i committenti sono ritratti mentre assistono all’evento miracoloso da due palchetti laterali, diventando così attori oltre che spettatori. Se nei suoi primi anni di formazione prevale l’interesse per la scultura, Bernini elegge successivamente a suo paradigma artistico la fontana, la macchina teatrale, l’apparato temporaneo, mescolando così caducità ed eterno e trasformando la fissità in movimento. L’opera del Bernini si può bene esprimere nel concetto di metamorfosi, scambio, rottura dei limiti, ingegnosa mescolanza delle diverse arti, tecniche e materiali: «il mirabile composto di cui parla Bernini è in definitiva il tentativo della sintesi nel cosmo delle tecniche» (M. Fagiolo dell’Arco, S. Carandini, cit.). Sant’Andrea al Quirinale (1658-1670), ad esempio, è una chiesa che diventa teatro: dopo l’invito a entrare piuttosto scarno della facciata, il visitatore si trova improvvisamente in un ambiente di inaspettata ricchezza, in cui l’effetto di sorpresa è fortissimo; il «bel composto» delle tre arti si configura ora come realtà cristallina e non più come mera utopia. 

La fastosa cerimonia commissionata da Antonio Barberini, “cardinale protettore” di Francia, per celebrare la nascita del Delfino (1661), figlio di Luigi XIV e Maria Teresa d’Asburgo, è forse il culmine dell’ibridazione tra natura e artificio a cui l’opera di Bernini tende: «dalle diverse relazioni di questo “bizzarro e sontuoso spettacolo” appare chiaramente la sua capacità di naturalizzare l’architettura e allo stesso tempo di architettare la natura» (M. Fagiolo dell’Arco, S. Carandini, cit.). La cerimonia si svolge presso la scalinata di Trinità dei Monti, dove Bernini sfrutta gli alberi distribuiti sulla collina integrandoli nella struttura: la stessa collina viene trasformata e modellata in vista dell’attimo catartico dei festeggiamenti, per cui l’artista immagina un gigantesca voragine di fiamme che soffoca la statua volante, allegoria della Discordia. L’evento è dettagliatamente descritto in una relazione pubblicata nel 1622: «l’animo intanto del Card. Antonio, che nutre sempre sentimenti generosi di tenerissima compiacenza, vedendo, che tutto il popolo stava tormentato d’un impatiente desio, di veder l’aria ripercossa da tuoni dell’artificioso incendio, commandò d’appicciar alla macchina il fuoco, il che seguito, si vide in un momento uscire da tutti i lati e da quella profonda voragine, tuoni, fulgori e baleni […]. Era troppo il piacere che ogn’uno godeva nel vedere fulgori e saette, che diffondendosi per il cielo, vomitavano stelle che scendevano sull’adunato popolo, che applaudeva con il viva a queste meraviglie» (E. Dozza, Relazione dell’allegrezza e feste fatte in Roma per la nascita del Delfino, all’illustrissimo Sig. Monsignor di Bourlemont auditor della S. Rota, 1662). Le ragioni dello straordinario successo dell’operato del Bernini sono legate al modo in cui inserisce ogni effetto naturale all’interno della rappresentazione: i crolli, le inondazioni, gli incendi non si realizzano su una scena separata, ma coinvolgono all’improvviso gli spettatori, dapprima terrorizzati e poi meravigliati, diventano essi stessi protagonisti della scena, un centro, seppur momentaneo e variabile, dell’azione; la distinzione tra protagonisti e spettatori si fa incerta, tutti sono in mostra, agendo secondo un ruolo codificato e contribuendo a creare l’atmosfera festiva. La scenografia è dinamica e avvolgente, la distanza tra palco e platea è labile e l’impiego e la mescolanza delle diverse arti tende a eliminare i confini fra le tecniche per assecondare la nuova coscienza dell’infinito in cui il secolo è ormai immerso (si pensi alle riflessioni di Giordano Bruno e  di Galileo Galilei).

Dominique Barrière, Riproduzione degli apparati festivi allestiti da Bernini e Giovan Paolo Schor a Trinità dei Monti per la nascita del Delfino di Francia, Roma, 1661.

Nella festa seicentesca, la folla è assunta in quanto comunità urbana differenziata e, a seconda della propria estrazione sociale, vi prende parte con modalità specifiche. Numerose scritte siglano gli apparati da festa con spiegazioni, ammonimenti e sollecitazioni che predispongono lo sguardo e la mente dello spettatore, controllando gli effetti psicologici del pubblico, indirizzando le sue reazioni, secondo un preciso schema di convenzioni note all’intera comunità. Nonostante i fruitori non costituiscano il momento centrale della festa, la loro presenza è essenziale per queste manifestazioni pubbliche spettacolari, che diventano parte integrante della memoria dell’intera collettività. Il carattere universalistico di quest’arte, il suo «rivolgersi ora alle classi più colte, ora alle più umili» (G. C. Argan, cit.), oltre che la capacità di «muovere gli affetti più diversi e di formar di essi un moto armonico senza scadere mai di tono», costituiscono le novità di questa così variegata, eccessiva, antitetica, sontuosa, bizzarra cultura dello spettacolo del Seicento Romano, forse la prima apparizione di una civiltà dell’immagine.

Marta Zaninello

Marta Zaninello studia Conservazione e gestione dei beni culturali presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove vive.

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