Un Prometeo di meno

Luigi Nono, Prometeo. Studio per "Tre voci", Fondazione Archivio Luigi Nono, Venezia

Se la prima volta Prometeo sembrava già andato in scena più volte, c’è come la sensazione che questa sia la prima. 

“Ascolto - Silenzio - Possibile…” sono le parole-chiave che si leggono in apertura all’intervista doppia del 1984 (anno della prima esecuzione del Prometeo) con Massimo Cacciari e Luigi Nono raccolta da Michele Bertaggia, le stesse che dovrebbero tracciare la costellazione problematica in cui è in gioco il cammino di ricerca musicale di Nono. Cammino costantemente rilanciato, infuturato perché vicino come inconcepibile, si è (ri)concretizzato negli ultimi giorni di un giallo gennaio, a Venezia, nella sede originale, la chiesa di San Lorenzo, quarant’anni dopo la prima esecuzione, ai cent’anni dalla nascita del compositore veneziano. “Ha un suo suono, un suo timbro particolare” – risuona nel suo silenzio – dice della chiesa Alvise Vidolin, pioniere della ricerca elettronico-informatica, regista del suono per l’esecuzione dell’opera e stretto testimone dell’avventura di Nono.

Si ripete quello che successe quaranta anni fa, questa volta nella piena testimonianza del tempo, sotto i riflettori dei convegni, conferenze stampa, giornate di studio in memoriam. Biennale naturalmente non può che istituirsi, diceva Bene, come archivio industriale del classico. Ma quello che fu così difficile sembra ora così semplice – è la distesa e commossa voce di Nuria Schoenberg Nono, che ricorda la prima esecuzione nella chiesa veneziana. I dubbi teorici, l’impresa temeraria e i fondi incerti sono un ricordo del passato, ma una volta abbandonati questi motivi, cosa resta del genio, dell’evento e cosa dell’industria?

A San Lorenzo, però, non c’è “l’arca” di Renzo Piano, una sorta di enorme cassa armonica, capolavoro di architettura e design, progettata per assorbire e rifrangere il suono e destinata idealmente a tornare ed essere installata in maniera permanente; vittima della burocrazia italiana, si sarebbe consumata in un anonimo magazzino della Brianza, con il fascino di una rovina diroccata. In sostituzione impalcature di metallo, un grosso scheletro grigio che sorregge il carapace della crociera. Non c’è la “luce glaciale” di Emilio Vedova, il “segno luce” che avrebbe dovuto collegare la scultura alla musica, collegare secondo un ordine inaudito: non come simboli ma come dramma: «il colore non mostrerà all’orecchio “ciò” che questo ha udito, ma si mostrerà, contestualmente e simultaneamente a quell’ascolto», scrive Cacciari alludendo ai lavori di costruzione dell’opera. Non c’è Claudio Abbado, formatosi nella cooperazione collettiva del primo Prometeo, ora sostituito da un brillante Marco Angius, che si è lungamente confrontato con l’opera di Nono. Da un altare laterale dirige, tramite monitor, quattro gruppi orchestrali distribuiti in un multispazio che si sviluppa in una tensione verso l’alto. La velleità sofferta per l’idea-utopia del suono mobile (Nono), che l’autore indica come la voce degli strumenti – «tecniche di immissione ed emissione del fiato e relativo controllo della articolazione e percezione dei micro intervalli da sperimentare e studiare assieme all’esecutore = tecnico». 

Renzo Piano, Spazio musicale per l’opera prima “Prometeo”, 1984, Chiesa di San Lorenzo, Venezia, dettaglio.

Renzo Piano, Spazio musicale per l’opera primaPrometeo”, 1984, Chiesa di San Lorenzo, Venezia, veduta panoramica.

Renzo Piano, Spazio musicale per l’opera prima “Prometeo”, 1984, Chiesa di San Lorenzo, Venezia, dettaglio.

Si è sottratto un Prometeo per far nascere un Prometeo futuro. Dev’essere questa la grandezza che si percepisce immediatamente nell’opera. Riesce a stare, sempre modificata, in uno spazio separato dal tempo.  E questo Prometeo è tanto distante dal tempo da non mostrare il suo movimento, la sua origine. Respira l’ora puntuale del culmine, che non è caos o festa, ma ascolto di questo prossimo-lontano, della struttura sonora nella sua più forma più inconfessabile, intuizione del silenzio da cui ogni voce proviene. Non è, questo Prometeo, il titano rivoluzionario della mitologia greca, non coincide con alcun prometeo storico, non quello di Goethe, né con la figura dell’astuto ladro che con un gesto segna la rottura dell’uomo con l’Olimpo. Il Prometeo di Nono, includendo in questo nome l’universo di cui si è accennato, depone il fuoco ed esorta: canta la forma che vorresti! un intelletto che – costruisce. Nell’attimo decisivo, in cui i vecchi dei non sono ancora tramontati e i nuovi sono ancora infondati, tale costruire avviene per sottrazione, un costruire sottraendo, fermando la durata, abolendola. L’opera resta imperativa: ascolta! Non pensare! Sospendi tutto! Sospendi il tempo della durata, delle parole, del consumo… interrompilo! Interruzioni e ripetizioni, nel canto al conituum si sostituisce l’istante. Ascolta l’essenziale! Ascolta l’eco, ascolta le pause. Ascolta l’unica cosa che è possibile ascoltare, ascolta il silenzio. «Nella nostra idea» dice Cacciari «Prometeo è una figura ispirata ad alcuni passi delle Tesi di filosofia della storia di Benjamin, quella di un angelo della storia, che la ripercorre, cercando di salvarne gli sconfitti, di salvarne le rovine. E la vicenda si svolge attraverso varie isole nelle quali emerge questa figura anti-prometeica del Prometeo. Un Prometeo che sta nella dimensione dell’ascolto o al limite del silenzio». È sospeso il Prometeo ribelle, trasgressore, superomistico, ladro di fuoco in ascolto di un nuovo Prometeo, suono soltanto, tragedia in cui ogni movimento si ritrae nell’attimo invisibile del suono.

C’era dunque il silenzio degli strumenti, dell’esecuzione e c’era lo spazio, la sede originaria. «Tragedia composta di suoni, con la complicità di uno spazio», così Nono. L’orchestra comincia ora a correre per occupare l’intero scheletro, l’arcipelago-silos di metallo, in cui sono contenuti, incassati gli esecutori. Nel primo momento di silenzio la chiesa inizia a risuonare, trasformando le due sezioni architettoniche – che separano lo spazio laico da quello, in origine, monacale tramite un intreccio quasi vegetale di grate – in uno strumento. Liberare le infinite possibilità del suono, scrivono, nel tentativo di liberare il suono da quella servitù del vedere che domina nel teatro d’opera normale. 

È solo in quella verticalità spaziale che l’elettronica avrebbe potuto incontrare, insinuarsi nei frammenti musicali delle isole armoniche spazializzate. Il suono circonda e si allontana, sparisce come materia viva, animale braccato - è pura risonanza, ambiente. La risonanza diventa sé stessa, si separa dalla traduzione-narrazione del suono e rimbomba in un eco polifonico corale. È la chiesa che suona sull’orchestra, stagliata in verticale, a chiudere lo spettatore, riflettendo il suono per approfondire l'ascolto. Qualcuno dice, avrebbe voluto essere libero di camminare, di girare, ma forse no, forse è meglio così, che si disperdano gli echi, i delay, che, come voleva Nono, ogni suono ed ogni pausa partecipassero al coro. Da vicino a lontano, a molto lontano, a lontanissimo poi silenzio: l’idea di spazio che guida il dramma musicale di Nono incarna questo dramma insuperabile della «distanza in cui il silenzio si arrischia nel suono e il suono nell’ascolto – e sempre l’ascolto, di nuovo, abbisogna del più profondo silenzio, per poter cogliere quel singolo suono, infinitesimo e irripetibile, per non confonderlo, per de-ciderlo da ogni altro» (Cacciari). 

È il dramma che descrive l’andare incontro a questo Prometeo, dove dran, insiste Cacciari (Verso Prometeo, 1984) «non è accadere, non è movimentum – è decisione singola e irrevocabile, totale responsabilità di fronte al proprio daîmon. Qui ogni vincolo causale, deterministico, estrinseco costituisce ciò da cui la decisione si strappa per cercare di scoprire quella figura, la figura di questo Singolo: suono, colore, segno, parola che sia. Soltanto tra singoli così costituiti può esservi rapporto – polifonia». La tragedia di Prometeo, questa l’urgenza della musica di Nono. Risuonano le parole dell’incipit che estendono l’azione sperimentale ancora oltre, assumendo nel Prometeo la forma del rapporto musica-spazio e musica-testo. Fenomenologia acustica che sommerge e dissolve lentamente la tradizione “fideistica” del linguaggio musicale come linguaggio rappresentativo. Prometeo senza Prometeo, secondo quanto non significa, e cioè si allontana parallelamente da ogni cosa che non sia in gioco nell’ascolto.

Foto di Andrea Avezzù - la Biennale di Venezia.

San Lorenzo, sede d’urgenza di un ritorno all’ascolto. Ritornare all’ascolto, come se sia stato usurato, separato dalla dimensione che più gli appartiene, quella musicale. «È lo stesso che accade a chi guardi al di là di questi vetri e veda alberi, e creda alberi e movimenti di rami… ma non ascolti…». San Lorenzo fabbrica nucleare di suoni sintetici, di colori sinfonici – quante seconde e quante quarte – magazzino d’archi e nastri magnetici, provocata da visi anziani di ebeti, che consola. E l’alterità, la differenza che questo silenzioso ascoltare crea, ci avverte. Sono anche i testi di Hölderlin, di Benjamin, di Eschilo scelti da Cacciari che non sono ulteriori rappresentazioni possibili ma voci ad aggiungersi all’intensità del coro elettrico di San Lorenzo. Non v’è inizio, ci si trova come  da subito immersi in una grande pineta. Aria, fiato, suono, microintervalli, labbra, movimento lento «continuo-discontinuo-percettibile-inudibile-profondità di lontanaze di memorie, di nature, di frammenti, istanti, sotterraneo, siderale, aperiodico, senza fine» (Nono).

Nessuno s’aspettava più che potesse finire. Nessuno credeva d’aver ascoltato e silenzio, protratto, veniva riempito da lontano da un leggero fischio in distantissimo. Lo spazio è(ra) completo – ecco il miracolo. 

Ascoltare la musica.

Non in una possibilità d’ascolto.

Ma con diverse probabilità di trasformazioni in tempo reale. 


«Questi legni, queste pietre-spazi di San Lorenzo, infiniti respiri».

Giacomo Berengo

Giacomo Berengo si forma nella traccia della filosofia tardo e post-moderna. Scrive di una scrittura atipica e mista, privilegiando temi legati alla filosofia della voce, all’estetica del contemporaneo e all’ermeneutica del linguaggio, del testo e del suono. Parallelamente, dal contatto con diverse realtà politiche e di ricerca artistica e musicale, delinea uno schizzo d’indagine sulla potenzialità poetica della TAZ nel poliedro che squadra e unisce spazio, potere, mistica, terrorismo, suono e scrittura.

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La volontà di scandalizzare. Note di psicologia II