Archiviare l’archivio
Il visitatore di Fondazione Prada a Venezia si troverà ad entrare in questo momento, piuttosto che nella abituale galleria, in quello che viene definito sul sito “un banco pegni in fallimento” inscenato dall’artista svizzero Christoph Büchel all’interno del palazzo della Fondazione. Il titolo dell’opera è Monte di pietà e il palazzo è effettivamente stato il luogo dello storico Monte di Pietà di Venezia, quell’istituzione in cui ci si poteva recare per chiedere un prestito a prezzi calmierati, portando un oggetto come pegno che valesse almeno un terzo del denaro richiesto. Successivamente è diventato sede dell’Archivio delle Arti Contemporanee (ASAC) per ospitare infine oggi l’attuale Fondazione Prada. In questo periodo nulla però suggerisce al visitatore di star entrando in una galleria che ospita l'"installazione immersiva” di Büchel, se non il gesto di pagare il biglietto. A maggior ragione che le indicazioni esterne sono quelle notoriamente invadenti e ridondanti di un “compro oro” italiano.
Ci si aggira per le sale senza riuscire subito a capire cosa stia succedendo. Oggetti di ogni tipo sono accumulati ovunque, non sempre secondo un criterio comprensibile. Presente e passato prossimo entrano subito in collisione: un’immagine di Giorgia Meloni incorniciata è poggiata di fronte all’entrata del bagno ma sul banchetto di fronte, apparentemente appartenente a una custode che sembra essersene appena andata, una piccola televisione a tubo catodico trasmette solo l’assenza di segnale. Spazi domestici come camere, bagni e cucine si alternano a depositi, archivi e luoghi di sorveglianza. Piano piano ci si rende conto di essere di fronte ad un’impresa mastodontica. Ogni cosa è costruita con una tale accuratezza da farci continuamente sospettare di aver oltrepassato i confini dell'"installazione immersiva” e di essere finiti erroneamente in qualche luogo “reale” esterno all’“opera”. Non ci è dato toccare nulla e su tutto è poggiato un leggero strato di polvere, probabilmente destinato ad accumularsi fino all’inconcepibile momento dello smantellamento.
La sensazione è quella di muoversi negli spazi di una casa dove è morto qualcuno: dopo quel momento traumatico nessuno ha più toccato nulla e la vita è rimasta cristallizzata nell’istante in cui era un attimo prima della morte. È una situazione in cui si rende drammaticamente evidente che, per quell’ente che noi stessi siamo, «finire non significa affatto compiutezza» (M. Heidegger, Essere e Tempo). E allora questi luoghi sospesi fotografano la vita «nell’incompiutezza o anche nello sfacelo e nella consunzione» (ivi), ovvero nei modi in cui la morte coglie, secondo Heidegger, la vita. Ma sembra che si possa sostenere anche il contrario. Nel morente, ci dice piuttosto Benjamin, «l’indimenticabile affiora d’un tratto nelle sue espressioni e nei suoi sguardi e conferisce a tutto ciò che lo riguardava l’autorità che anche l’ultimo tapino possiede, morendo, per i vivi che lo circondano» (W. Benjamin, Il narratore). L’incompiutezza, insostenibile, prende allora subito l’aria della compiutezza solenne. Questi spazi improvvisamente svuotati, i cui inquilini sembrano essersene andati un istante prima che noi arrivassimo, diventano l’indimenticabile ultima parola sull’essere umano occidentale. Lo sfacelo è quello contemporaneo dei resti di una cena a base di pesce in teglie di alluminio (apparecchiata in modo da rievocare l’Ultima Cena), mentre nella stanza accanto decine di computer ininterrottamente raffreddati da ventole con luci al neon minano bitcoin all’infinito. In assenza di vita, continuano a scorrere solo i flussi di informazioni e denaro che ci attraversano e di cui ci nutriamo, dominando solennemente la scena.
Da questa mole nauseante di oggetti di ogni tipo della cultura occidentale vorremmo poter prendere le distanze, come quando in un trasloco continuano ad emergere oggetti dal fondo dei cassetti: dobbiamo dividerli in scatoloni ma essi non rispondono a nessuna categoria prestabilita, fino a quando non diventa evidente che molte cose dovranno essere buttate. Guardiamo questi oggetti e «sappiamo che questi elementi estranei e ingannatori sono stati inclusi nella vita come un ovvio accessorio» (S. Kracauer, La fotografia). Ma d’un tratto «ciò che una volta era familiare diventa strano come un polipo delle profondità marine» (ivi): le cose perdono la loro qualità di oggetti e diventano resti estranei. Kracauer sta descrivendo l’esperienza raccapricciante di guardare una vecchia fotografia diventata irriconoscibile e l’archivio di Büchel non è altro che una continua messa in scena di quell’attimo in cui la vita si gela in un’immagine. Qui basta uno scarto minimo, un effetto di cornice, un’assenza inspiegabile, per trasformare lo scorrere quotidiano in un’istante improvvisamente irredento. L’effetto fotografico, versione tecnologica della morte improvvisa, incornicia, rende visibile, ma non ci dice nulla riguardo ciò che mostra e, se non abbiamo a disposizione un qualche criterio con cui leggere l’immagine, questa diventa una presenza tanto invadente quanto inutile. Presa in una fotografia non richiesta, la quotidianità contemporanea appare del tutto privata di senso.
Vorremmo poter dirci altrove rispetto a questa discarica, anime belle immuni rispetto a questo inutile accumulo. È una pulsione che potremmo definire distruttiva o archiviolitica, indirizzata a negare a qualsiasi cosa la possibilità di lasciare traccia e collegata con la pulsione di morte. Derrida ha però mostrato come la pulsione di morte, che vorrebbe negare ogni archivio, sia in realtà ciò che si ritrova nel gesto stesso di archiviare. La sua azione è quella di sradicare la memoria spontanea, vivente e interiore tramite una ripetizione che la esternalizza in un qualche supporto, per definizione ipomnestico. Con questo giro largo la pulsione di morte trova la possibilità di essere reinvestita in un’altra economia. Qui la troviamo sotto mentite spoglie: truccata, travestita e dipinta nel tentativo di camuffare quelli che tuttavia resteranno sempre «ricordi della morte» (J. Derrida, Mal d’archivio). Nel suo movimento di esternalizzazione la memoria si fa però anche necessariamente tecnica: l’archivio non può solo essere il luogo neutro di stoccaggio della memoria, piuttosto «produce dal momento che registra l’evento» (ivi). Le gambe artificiali e le sedie a rotelle che vediamo appese nella cappella al piano terra esemplificano allora la natura di tutti gli oggetti presenti: sono protesi del nostro stesso dentro; sono le forme, i supporti e i linguaggi attraverso cui la nostra cultura si è compresa e da cui siamo inscindibili nel nostro far passare la vita attraverso ciò che è senza–vita, e che quindi rischia sempre di finire abbandonato in un angolo.
Passando spaesati da una sala all’altra diventa sempre più impellente la domanda: a che genere di archivio siamo di fronte? Qual è il filo conduttore che lega tutto ciò che è accumulato in questo edificio? Sappiamo che ogni archivio è già sempre «istitutore e conservatore. Archivio eco-nomico in questo doppio senso: «custodisce e mette in riserva, risparmia ma in modo non naturale, cioè facendo la legge (nomos) o facendo rispettare la legge» (ivi). Ciò che accomuna l’enorme eterogeneità delle cose che riempiono le stanze allora si rivela non essere altro che questo fondamentale e primordiale gesto di rendere capitalizzabile qualcosa, di rendere possibile l’accumulo, lo stoccaggio. Da questo punto di vista non c’è differenza tra le candele accese nella cappella, la stanza in cui vengono minati i bitcoin, le postazioni con libri impilati di fronte a un computer su cui si sta scrivendo una tesi, un cumulo di vestiti usati, il Casinò, la stanza di sorveglianza in cui decine di videocamere tengono sotto controllo tutti gli angoli dell’edificio: topologie diverse derivate dallo stesso movimento che fonda la possibilità che qualcosa possa essere conservato.
Ma sappiamo di essere in un banco di pegni in fallimento. All’entrata leggevamo “Compro Oro”. Qua e là si vedono delle bilance che rimandano al gesto di pesare e stabilire di conseguenza un valore. Uno schermo riproduce in tempo reale il valore in continuo aumento del debito mondiale. Una cassetta contiene dei diamanti in cui sarebbero state convertite le opere di Büchel. Allora viene il sospetto che questo archivio non sia in fondo doppiamente economico solo in quanto accumula, fa economia, in vista del capitale e istituendo il capitale come unica e ultima legge. Nel momento in cui lo realizziamo, ci rendiamo conto che l’enorme eterogeneità di ciò che riempie le numerose stanze potrebbe in fondo essere accomunata dall’unico e definitivo fatto di essere merce. Uscendo dalla Fondazione Prada si ha la sensazione che l’archivio di Büchel continui attraverso la città di Venezia, per procedere oltre e non finire mai.