Are you allergic to the XXI century?

Frame da Safe (1995), Todd Haynes, USA/UK, 119 minuti.

La Multiple Chemical Sensivity (MCS) è un discusso disordine che consiste nell’indebolimento della tolleranza dell’organismo a composti tossici presenti nell’ambiente e negli oggetti d’uso quotidiano. L’esposizione prolungata a modeste quantità di tossine, vapori o sostanze chimiche può scatenare nell’organismo inspiegabili reazioni allergiche. Safe, film di Todd Haynes del 1995, racconta la progressiva debilitazione di una donna alle prese con lo sviluppo della MCS nella docile suburbia di Los Angeles. Non trovando conforto nella medicina tradizionale, decide infine di lasciare la sua ormai insostenibile quotidianità per trasferirsi in una sorta di retreat center, immerso nell’arido paesaggio del New Mexico. Qui, i contatti e gli ambienti, attentamente controllati e asettici, riducono al minimo l'esposizione del corpo ai contaminanti. Il film, esplorando la precarietà del focolare domestico, sia nei suoi aspetti materiali che nei legami affettivi annessi, ne manifesta sul corpo gli effetti, nel processo sovvertimento da rifugio sicuro a ricettacolo di pericoli più o meno visibili.

La casa è stata al centro di un processo di sanificazione che ha spinto, per primi, i soggetti allergici a modificare  gli interni, tra mobilio e rivestimenti, in prevenzione della loro salute. La scoperta dell’acaro della polvere (Olanda, 1964), un microscopico parassita con le sembianze di un ragno che si nutre di residui di pelle umana, ha rivoluzionato l’immagine dell’abitazione guscio in voga nel XIX secolo, rassomigliante ad un «astuccio per compassi […] di velluto viola con tutti i suoi accessori» (W. Benjamin, I «passages» di Parigi). Così, la moquette, che si era diffusa a macchia d’olio tra gli anni Quaranta e Sessanta grazie ai progressi nella produzione delle fibre sintetiche, alla pubblicità, all’aspirapolvere e alla riduzione dei tempi e dei costi di installazione rispetto al parquet, viene invitata dagli allergologi ad abbandonare lo spazio domestico. Si iniziano a promuovere quindi superfici più facili da pulire galvanizzando un legame tra sporco e malattia che ha reso ben presto la sporcizia un vero e proprio costrutto morale: «Il design degli interni inevitabilmente soccombeva all’igiene paranoica: la polvere e le complessità di riproduzione dei germi degli interni del diciannovesimo secolo collassavano in una pura superficie bianca, liscia, piatta, non porosa e senza soluzione di continuità, sotto la continua sorveglianza disciplinare della casalinga». (E. Diller, R. Scofidio, Flesh: architectural probes). Tuttavia, Daniele Del Giudice, nel suo racconto L’orecchio assoluto, evoca attraverso un dialogo una lucida rassegnazione: «lo so, avete tutti la mania delle pulizie di casa, non fate che spolverare e tirare a lucido, voi italiani più  di tutti. […] Mi creda, della polvere non ci si libera mai. […] Nemmeno dagli acari ci si libera. […] Le nostre camere da letto sono linde e curate, freschi i materassi, lenzuola alla lavanda, eppure nel suo letto come nel mio ci sono comunque un paio di milioni di acari, lei non li vede e loro non le danno disturbo, mangiano le squame di pelle morta che lei lascia ogni notte, migliaia di piccole squame si distaccano da lei e finiscono nello stomaco degli acari».

Adolf Loos, Camera di Lina Loos, 1903. Courtesy Caixa Forum. 

Nonostante i tentativi, l’asepsi non è un affare domestico. Inoltre, è sufficiente dischiudere la finestra per respirare le polveri sottili disperse nell’ambiente. «L’arte di dirigere il mucchio verso la paletta» (G. Clement, Ho costruito una casa da giardiniere) non ha nulla a che vedere con le dinamiche planetarie dei flussi di inquinamento. Nell’immaginario collettivo restano vivide le immagini dei tragici eventi in cui fitte mura di fumo e polvere hanno causato intossicazioni, decessi e gravi emergenze ambientali: il Great Smog di Londra, il New York City smog, una nube tossica e killer di portata disastrosa servita ai newyorkesi durante il fine settimana del Ringraziamento, i banchi di nebbia a bassa quota delle metropoli asiatiche e, più vicina, la nostrana cappa d’inquinamento sulla pianura Padana.

Nei primi anni dalla nascita dell’Earth Day, Gordon Matta Clark e Juan Downey scendono per le strade di Manhattan con Fresh Air Cart, uno pseudo risciò per la somministrazione di aria pura: due sedili a rotelle all’ombra di un parasole da cui inalare, attraverso una maschera per l’ossigeno, una boccata d’aria pulita contenuta in una bombola. Oggi, la diffusione delle mascherine per la filtrazione efficiente dell’aria sono beni di consumo e non rappresentano una denuncia politica contro le scarse misure di protezione ambientale, sono bensì il prodotto diretto della sua speculazione. I filtri elettrostatici di questi costosi DPI, una volta saturati e sostituiti, si accumuleranno l’uno sopra l’altro nelle discariche del terzo mondo e, immersi in una tossica foschia gialla, prenderanno le sembianze informi di pluri-Dustyrelief.

Gordon Matta-Clark, Fresh Air Cart, 1972, cart in acciaio con tettuccio in nylon, due posti, bombola di ossigeno, 175,30 x 165,10 x 85,10 cm. Courtesy M HKA. 

Se da una parte è possibile mascherare momentaneamente gli effetti dell’inquinamento, le conseguenze si ripercuotono inevitabilmente sulle superfici di altre parti del mondo, in contesti più poveri e vulnerabili. Infatti, per quanto riguarda l’inquinamento stesso, la fallacia di molti recenti progetti architettonici volti alla purificazione risiede nell’immaginare un mondo in cui l’inquinamento scompare (D. Gissen, A Theory of Pollution for Architecture). Si pensi ai giganti di cristallo. Scrive Walter Benjamin in Aura e choc: «Il vetro è un materiale così duro e liscio, a cui niente si attacca». Eppure, questa frase è errata perché il vetro si sporca eccome. I rifiuti antropici dispersi nell'aria vi si depositano, rendendolo opaco. I grattacieli sono sudici e squadre di lavavetri acrobatici puliscono le loro vetrate in quota, in una danza sospesa alle funi di sicurezza. Il tentativo di mantenere un’immagine pulita e detersa nel tempo dipende in gran parte nella scelta dei materiali di rivestimento. Tra questi, spiccano i vetri antismog trattati con il biossido di titanio che, presentando proprietà fotocatalitiche, innesca, tramite la luce, un processo di degradazione delle particelle inquinanti. Tuttavia, il suo processo estrattivo solleva gravi criticità. Andrés Jacque/Office for Political Innovation indaga il rovescio della trasparenza dell’architettura high-end del Nord del mondo con l’installazione “XHOLOBENI YARDS. Titanium and the Planetary Making of SHININESS/DUSTINESS”, presentata alla diciottesima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. Il rivestimento inossidabile e lucente dei grattacieli di Hudson Yards a Manhattan, un progetto di riqualificazione urbana dei più recenti anni duemila, fa scontare il suo debito altrove. L’estrazione del titanio, necessario a mantenere i vetri puliti, rende la sabbia della costa nord-orientale del Sudafrica così leggera e volatile da rendere impossibile l’agricoltura e in definitiva, costringere le comunità a migrare e gli ecosistemi a morire.

Mentre si conquista la desiderata lucentezza, dall’altro lato del mondo la polvere si alza, rivelando la sua potenza distruttiva. Questa sporcizia, indice del contemporaneo e oggetto di incessanti tentativi di rimozione, continuerà a depositarsi, riscrivendo l’immagine della città al trascorrere del tempo. Tuttavia, il processo può subire un’accelerazione una volta assimilato nel circuito della modernità.

 Come riporta Rem Koolhaas in Delirious New York, citando The Secret Life of Salvador Dalì, sotto gli occhi scioccati dell’artista, una squadra di operai «armati di attrezzi da cui usciva un fumo nero e che fischiavano come draghi apocalittici» ricreava, in uno slancio anti-modernista, una patina scura sui muri esterni di un palazzo di nuova costruzione, troppo pulito per aderire al volto fuligginoso di Park Avenue. L’edificio, così invecchiato artificialmente, si mescolava all’omogenea e sporca immagine della congestionata Manhattan, facendo il verso agli architetti «à la Le Corbusier» che andavano in cerca di nuovi materiali, più lucenti, per emulare il presunto splendore moderno newyorkese.

La strategia di annerire per contestualizzare l’architettura è stata adottata, in anni più recenti, dallo studio polacco KWK Promes, fondato nel 1999 da Robert Konieczny. La pelle del complesso residenziale a bassissimo budget Unikato (Katowice, Polonia 2017) è stata integralmente trattata con un intonaco scuro, del colore della grafite. Konieczny propone una rilettura sperimentale dell’architettura moderna del periodo prebellico guardando agli edifici sopravvissuti nella Slesia, ora regione postindustriale disseminata di miniere di carbone dismesse. Gli edifici del Moderno, nati bianchi e immacolati, hanno subito una graduale esposizione allo smog e si sono sporcati, presentandosi ora come grandi monumenti alla polvere. Il reale valore del progetto risiede, oltre che nella traduzione materiale e spaziale di un dialogo iniziato con il contesto urbano, nello sfidare la tendenza degli investimenti locali. Konieczny mira a riportare la casa al centro di una città che soffre un importante calo demografico e che vede i lavoratori rimbalzare giornalmente dai sobborghi, generando un flusso spropositato di automobili che esalano miasmi asfissianti. Assediato dal particolato atmosferico, lo studio escogita una strategia di convivenza, più che di contrasto, abbracciando un’estetica nera che proietta nella sua immagine gli effetti deterioranti dello smog invece di respingerlo.

Nella lenta pratica dell’architettura, l’introiezione delle conseguenze di un modo antropico di abitare il mondo offre uno strumento efficace di connessione aderente alle vicende della vita e alla loro rappresentazione. Alcuni progetti contemporanei, una volta scavati a fondo, rivelano le loro disarmanti contraddizioni, mentre altri sperimentano una necessaria convivenza con le sfide che ci pone il nostro ambiente viziato, rinnovando un patto con la tanto esecrata vita urbana.

Silvia Narducci

Nata a Torino, ha studiato Architettura tra Torino, Losanna e Venezia, dove si è laureata con una tesi sul corpo patologico dell'architettura.

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