Ricominciare dall’infinito: verso un radicale discorso su dio
A fronte delle chiare differenze culturali tra popoli e continenti, è difficile definire in maniera generale l'attuale statuto del rapporto degli umani con il divino. Da una prospettiva occidentale, a seguito di una storia millenaria che sul culto e sul credo ha declinato il potere, plasmato abitudini, convocato guerre, generato ricchezze materiali, prodotto estetiche, acceso speranze e determinato oppressioni, il ciclo produttivo assorbe oggi le vite delle persone a tal punto da rendere l'idea del divino necessariamente sfocata, ricordo di un'antica e autorevole tradizione, figura regia, padre o padrone con funzioni più regali che reali, nome ingombrante utilizzato a fatica per declinare moralità e politiche. Ci siamo chiesti se certe forme del divino fossero sopravvissute all’interno di una società, la nostra, apparentemente secolarizzata, forme che contemplassero un sentito, consapevole e critico coinvolgimento dei soggetti, sia come abitudini culturali stratificate nel vissuto personale sia in nuove espressioni ancora incerte. Ci siamo chiesti se l’assoluto assumesse in un modo o nell’altro un ruolo di interlocutore e se l’argomento del divino emergesse tra le conversazioni che le persone fanno quotidianamente, così come parlano di salute, politica o del tempo.
Una ventina di persone di età tra i venti e trent’anni si sono trovate in un cerchio a Milano, con l’intenzione di riabilitare un tema che non sembra ricoprire un’esplicita funzionalità tra le attività del quotidiano. Dio, quindi, è un tema? Come facciamo a parlare di questo argomento? Da dove partire? Ci riguarda? Come?
I pensieri di questi venti compagni circolano disordinatamente in forma di domande e il primo dato che emerge è che nessuno si sta ponendo alcun dubbio. Sembra dato per ovvio: dio esiste, sulla sua esistenza non si è nemmeno discusso. Mi pare quindi di capire che se l’avevamo dato per spacciato a un certo punto della nostra storia recente, e nonostante il fracasso dell’ingranaggio produttivo, dio è evidentemente sopravvissuto nel silenzio delle riflessioni personali o di ristrette informali ritualità. Senza accordarci, scavalchiamo la scomoda domanda sulla sua esistenza ed elaboriamo collettivamente le nostre convinzioni su dio.
Dio è il nome che diamo a un orizzonte di oltrepassamento, una trascendenza senza scarto ontologico: noi e dio non siamo sostanze diverse, contrariamente a quanto la tradizione ebraico-cristiana ci ha insegnato. Se dio non sta a portata di mano e non è un fenomeno che ci appare nel qui e ora, è perché siamo stati abituati a sentire dire che dio sta oltre lo spazio di questo mondo. La sua esistenza, ci raccontano le religioni monoteiste, è di un’altra stoffa, di un altro tipo. Lo possiamo trovare nella nostra intimità, nella nostra anima, come i tardo antichi ci hanno insegnato, o nell’amore della comunità che costruiamo in suo nome, come il cristianesimo ufficiale ci ha illuso fosse la Chiesa, nel nome della trinità, ma dio è indubbiamente fatto diversamente da noi. Nella scissione tra intelletto e materia giace l’incolmabile scarto che divide il creatore, idea e verbo, e il creato. Ci scostiamo con convinzione da questo paradigma: il ripudio è direttamente legato al rifiuto della gerarchia teologico-politica implicata dall’abisso ontologico. Neghiamo tale abisso e ci scopriamo nel divino. La questione del potere è centrale: un modello metafisico che fonda rapporti di dominio tra gli esistenti in virtù di una gerarchia ontologica tra creatore e creato raccoglie il consensuale rifiuto dei compagni di questo incontro. Basta osservare la continuità di una cosa con l’altra, la reciproca dipendenza di ciascun ente finito con il suo prossimo, laddove il confine di ciascuna cosa e l’inizio di un’altra riflette una finitezza che è più nel linguaggio, nel verbo, nell’idea, che nella cosa stessa. Le cose stanno insieme, non per forza secondo un paradigma di pacifica convivenza: il tutto non è statico, ma rimane unico e questo uno oscilla, è dinamico, vibra. Gli enti non sono cose, sono campi in intersezione.
Il modello gerarchico dello scarto ontologico, dell’inaccessibilità del divino – con i suoi re del culto e i culti del re, con i suoi dogmi come strumenti di controllo politico – legittima retroattivamente l’esercizio delle forme tradizionali del potere: qualcosa sta in alto e quello che sta in basso riceve il proprio moto dalla causa efficiente che lo determina. Il modello creazionista (l’artigiano che produce un mondo informando della propria idea una materia informe) in verità ci allontana dal divino: se il divino, come affermiamo, è nel tutto di cui siamo parte, e anzi è questo tutto (fisica quantistica, pensiero panteistico e buddhismo ci vengono in aiuto nella comprensione di questa cosmologia), allora l’individuo si scopre parte del divino, abdica paradossalmente alla condizione di inferiorità a cui lo scarto ontologico della religione del potere (o del potere della religione) l’aveva condannato. La nostra finitezza è una colpa solo se perseguiamo l’ipostatizzazione della singolarità, facendo del limite della nostra carne un limite ontologico. Non vogliamo tuttavia negare la legittimità della nostra individualità ma prendere coscienza della partecipazione dell’individualità al tutto, a quel dio che contribuiamo a popolare e a far vibrare, entrando in armonia o in conflitto col resto dei finiti – nessuno dei quali è legittimato a una priorità rispetto all’io e a nessuno dei quali sono legittimato a imporre una mia qualunque priorità. Dio è nell’infinita relazione di ciascun ente con tutti gli altri. La labile separazione tra i finiti è funzionale alla dinamica interna di dio, che pur essendo uno non è essere immobile e pietrificato, ma potenza vitale.
Nel vibrante flusso del nostro simposio, emergono alcune riflessioni che sembrano riecheggiare la saggezza delle parole dei profeti delle scritture o di certi filosofi: “le cose non sono individui, sono campi”, “dio è la capacità di riconoscersi all’interno del tutto”, “la civiltà si libera di dio a causa della sua dimensione eversiva”. D’altronde, rifiutare il dominante paradigma del dominio che regolando il rapporto tra divino e umano regola il rapporto tra umano e mondo e tra umano e umano, significa riabilitare dio in una prospettiva radicale, scuotendo tanto gli equilibri ontologici che quelli etico-politici. Che dio sia il tutto in cui noi siamo e ci riconosciamo, partecipando dunque attivamente alla sua essenza, ci conduce senza soluzione di continuità verso un modello di società che accoglie e traduce metafisicamente le nostre esigenze politiche: la tensione politica si riflette nell’elaborazione metafisica, la credenza metafisica si riflette nell’aspirazione politica. E non può che essere così dal momento che se il divino è nella relazione reciproca tra i finiti, relazione che supera l’individualità facendola trascendere verso il tutto (la trascendenza per noi è del singolo, non del divino), una politica che destituisce, delegittima e avversa i rapporti di dominio tra umani e non umani e tra umani e umani in funzione emancipativa dell’universalità dell’essere (implicata già solo dalla presenza dell’umano in questo mondo e non in un altro) è la realizzazione fattuale di questa cosmologia del tutto. Una teologia che è insieme cosmologia e psicologia (dal momento che ci spingiamo fino a immaginare l’equazione tra le idee di dio, mondo e anima) non è un nobile discorso per cui principi come l’uguaglianza si risolvono nella formalità della parola (la sacralità della legge) ma è una pratica reale: nella prospettiva dell’uno-tutto, teoria e prassi, parola e azione, idea e materia stanno sullo stesso piano ontologico. Raccogliamo quindi l’insegnamento del materialismo storico in una prospettiva ontologica emancipativa e, pur essendo al cospetto di un dio (certo, un dio evidentemente diverso da quello della nostra tradizione ufficiale), possiamo affermare con convinzione che la verità è prassi.
Siamo in grado di elaborare forme così complesse di pensiero metafisico e insieme politico (scopriamo che non sono che la stessa cosa) perché facciamo già esperienza della forza di queste idee prima della loro elaborazione in questi termini, nei momenti in cui ci riconosciamo fare parte di questo tutto: “Dio muore quando ci individualizziamo”. Possiamo confermarlo perché abbiamo vissuto e cerchiamo forme estatiche di partecipazione collettiva, diverse forme di ritualità laica che sentiamo di voler vivere, in cui la tensione individuale verso la collettività non nullifica l’individuo (altrimenti la dialettica tra singolo e tutto sarebbe esclusiva) ma lo rende capace di comprendere di essere parte integrante e realizzante di questo tutto. Le manifestazioni di piazza, le feste (le metafore sul suono e sulla vibrazioni dei corpi si sprecano), gli eventi di massa, in generale le dimensioni rituali comunitarie - l’esperienza dello stare insieme, con la sua implicazione di trascendenza, ci porta in uno stadio analogo al tutto più di quanto non lo sia l’esperienza del singolo. O, meglio, ci inserisce in quel tutto che è esso stesso dio. “La connessione tra i singoli è la connessione del tutto”.
Le riflessioni sulle necessarie implicazioni politiche di una simile ontologia coinvolgono anche il tema della tecnica. La metafora dell’artigiano, artista, architetto o demiurgo (acquisita dal modello creazionista) che crea una sostanza altra sulla base delle idee del proprio intelletto rispecchia nella dimensione trascendente la transitività dell’atto produttivo dell’umano: così come l’umano appare all’umano come totalmente altro rispetto al divino, siamo vittime dell’illusione che l’oggetto della tecnica possa stare all’umano come l’umano sta al divino nell’ipotesi creazionista, e quindi che noi umani creiamo una sostanza altra in qualità di causa efficiente dei prodotti della nostra tecnica. E l’uomo aspirerebbe dunque alla posizione divina, diventerebbe dio, come dio è dio per l’uomo. Ci chiediamo quindi se con la presunzione di farci dio con la tecnica ci allontaniamo da dio. Alla luce della coessenzialità dell’ipotesi cosmologica del tutto, ci difendiamo però dal pericolo insito dell’ipotesi creazionista e ci affranchiamo dalla seduzione misterica di una tecnica che rivela all’umano, stupito e ammirato dai supposti miracoli delle proprie invenzioni (immediato l’esempio dell’intelligenza artificiale), i propri tratti divini – e l’uomo vide che era cosa buona? Col creazionismo, quindi, siamo quotidianamente tentati di proiettare nel prodotto umano i caratteri del prodotto divino. A difenderci da questo schema, resta la consapevolezza di doverci affrancare da ciò che percepiamo come trascendente o ontologicamente altro nel politico.
Liberare pertanto dio dalle catene delle categorie patriarcali della produzione e del dominio, della superiorità di un ente in virtù della priorità ontologica della propria essenza rispetto all’esistenza delle sue creature (e che nella tecnica abbiamo presunzione di incarnare noi umani, a nostra volta); prendere consapevolezza della partecipazione, per quanto limitata e finita, alla totalità dell’essere che siamo e in cui siamo attivamente e dinamicamente; pensare dio nella relazione e nella potenza che interessa le cose tra di loro; prendere parte alla comunità e all’ecosistema come espressione necessaria della nostra immanente trascendenza – cioè, a questo punto, della nostra essenza intradivina; e “essere fedeli alla terra”: la nostra tensione è affermativa, il nostro assoluto è mondano. Cambierà anche il punto di vista a seconda di quale dei tre termini privilegiamo, ma siamo a un passo dal concepire l’anima, il mondo e dio come un’unica cosa, e siamo pronti a vivere le conseguenze etiche e politiche di una tale uguaglianza.