Ascolto del singolare
ad Adone Brandalise
I dialettici non hanno alcuna conoscenza di queste cose e di questa natura, che gli agricoltori e gli artigiani conoscono meglio di questi grandi filosofi. Adirati contro questa natura che essi neppure conoscevano se ne sono costruita un’altra, quella cioè… delle formalità, ecceità, realtà, relazioni, idee platoniche e bizzarrie che neppure sarebbero in grado di comprendere essi stessi che le hanno partorite; e quando non riescono in altro modo le giustificano con un nome dignitoso, le chiamano Metafisica e tutti coloro la cui intelligenza non ha nessuna conoscenza della nostra natura, o ne ha orrore, e ha invece tendenza ad astruserie e a sogni folli [ad somnia quaedam insanissima], dicono che possiede un’intelligena metafisica.
J.L. Vives
Ma la filosofia, proprio con questo suo «unico» presupposto di non avere alcun presupposto, non era già anch’essa piena di presupposti, non era anzi globalmente presupposto essa stessa?
F. Rosenzweig
La rete
Secondo Musil i filosofi «sono dei violenti che non dispongono di un esercito e perciò s’impadroniscono del mondo rinchiudendolo in un sistema». Il pensiero è attraversato da un invincibile bisogno: colmare gli spazi vuoti, rappresentare in una forma ordinata lo spettacolo del mondo, che si presenta molteplice e caotico. Ognuno, lo sappia o meno, si fabbrica una rete – fatta di concetti, valori, illusioni – per sopravvivere, per assegnare una forma al mondo, per dare un ordine all’indistinto. (Alla forma logica della propria rete, ognuno corrisponde attraverso determinate abitudini e scelte – e questa è l’etica). Si tratta di qualcosa che accomuna tutti gli esseri pensanti. La differenza sta nella forza dell’ordinamento raggiunto, o nell’intensità del dolore causato dal fallimento.
Idea della rete: la lingua greca dice griphos, laccio usato per cacciare, per intrappolare una preda in fuga. Ma la rete è più letale per chi la lancia che per l’oggetto catturato. Avviluppando il mondo, simultaneamente essa lo scherma: non si vede la cosa, ma i fili che la imprigionano. Il pensiero scopre – troppo tardi – di essere stato risucchiato, con il mondo, nell’unica trappola: la lingua. Ogni parola e ogni concetto stanno tra il pensiero e il pensato come un ostacolo inaggirabile, che oscura e impedisce il cammino. Per questo occorre sostare sulla seguente idea: ogni concetto determinante del canone filosofico è per il pensiero al tempo stesso necessario ed equivoco. Ma che significa?
Sotto l’occhiale genealogico, la filosofia occidentale sembra essersi raccontata una storia (di sé) che le impedisce di poter agire (su se stessa) in forma realmente innovativa. Certo: orientarsi nel pensiero significa inevitabilmente ereditare un lessico, una grammatica e una sintassi, che come ogni linguaggio vincolano il parlante a determinate leggi, a una determinata prospettiva.
Ma denunciare i limiti gnoseologici del linguaggio – dentro i quali il pensiero vive e si struttura – non implica affatto l’uscita dal suo recinto. All’opposto: insistere sull’invalicabilità di questi limiti, non può che sfociare nella continua ‘variazione sul tema’ dello scacco teorico in cui si versa. Ma il linguaggio comprende in sé una molteplicità di lingue. Per questo le proposte filosofiche più interessanti della contemporaneità sono quelle che hanno saputo tentare il gesto della traduzione – sovrapponendo cioè alle forme di una determinata lingua (la metafisica occidentale) quelle di lingue differenti.
Davanti alle crisi strutturali del pensiero, alla dissoluzione dei suoi fondamenti certi, la filosofia rischia ogni volta di cedere a due tentazioni, opposte e complementari: quella reazionaria e quella falsamente rivoluzionaria. La prima vuole tornare acriticamente al passato, preferendo le menzogne rassicuranti di un cadavere al rischio e alla fatica del pensiero in atto; la seconda nasconde, dietro la maschera della nuova libertà espressiva, una forma vuota, incapace di rendere conto della propria genesi, appunto, critica. Entrambe le prospettive manifestano un parlare privo di senso. Sergio Solmi disse una volta che «un senso ha sempre più senso quanto più si avvicina al non senso. (Attenti a non caderci però)». Ma come è possibile avvicinarsi al non senso senza cadervi?
Esistono modi del pensiero capaci di manifestare l’uscita dall’alternativa paralizzante fra passatismo reazionario e falsa rivoluzione. La filosofia autenticamente rivoluzionaria è quella che fronteggia la propria crisi misurando con disincanto l’insufficienza dei suoi vecchi strumenti. Ma questa misurazione coincide con una metamorfosi radicale della fisiognomica del pensiero stesso.
Lo stesso pensiero scientifico trova nei traumi dell’indagine – più o meno rimossi dalla coscienza storica – la spinta motrice dei propri ‘salti’. In questo senso, la storia dell’episteme occidentale è l’ininterrotto e destinale sgretolarsi di tutte quelle teorie fondate su termini come ‘infinito’, ‘continuo’, ‘totalità’. Dal fondo sordo di queste idee torbide – necessariamente indefinite, perché non-quantificabili – sempre risale l’esigenza del proprio disfacimento: l’eruzione del singolare.
Doppio trauma
Pitagora contempla l’universo come l’ordinato e misurabile adattamento delle parti (il molteplice) in una trama complessa (l’unità). Le cose si stabilizzano e risultano conoscibili solo attraverso un numero: i rapporti sensibili di consonanza riflettono i rapporti puramente matematici. Il numero è l’arché. Così, secondo l’aritmo-geometria pitagorica l’ordine fisico dell’universo riflette l’armonia che regola l’accordo di uno strumento musicale: modificando la lunghezza delle corde su un monocordo, Pitagora scoprì gli intervalli fissi comuni a tutte le scale greche, ovvero il rapporto dell’ottava (1:2), della quarta (4:3) e della quinta (3:2). I numeri ricorrenti in questi rapporti sono 1, 2, 3 e 4, la cui somma è 10: la Tetraktys, numero perfetto e divino.
L’universo, quindi, è misurabile ed esprimibile da grandezze e rapporti di grandezze razionali, espresse da numeri (e frazioni di numeri) interi, ordinati sulla base della loro costituzione discreta, che permette di marcare l’individuabilità di ogni numero. È precisamente questo ordine che venne a collassare con la scoperta dei cosiddetti ‘numeri irrazionali’. Il rapporto fra lato e diagonale di un quadrato è incommensurabile, cioè non esprimibile in numeri razionali. Infatti, se il risultato di √2 fosse espresso con un numero, questo dovrebbe essere al tempo stesso pari e dispari. (Lo stesso principio di non-contraddizione – secondo il quale a un soggetto non possono appartenere contemporaneamente due predicati contraddittori – è quindi invalidato). Si tratta di ciò che il linguaggio della matematica contemporanea chiama punto di singolarità: il semplice darsi di un caso in cui una legge (universale) non vale – perché non può valere.
Il trauma della razionalità greca, generato dalla scoperta del continuo (secondo la quale le forme geometriche sono costituite non da un numero finito, ma da un’infinità di punti), trova il suo complemento teoretico nella rivoluzione gnoseologica proposta fra il XIII e il XIV secolo da Ockham, che contempla tutta la drammaticità speculativa implicita nella preminenza del singolare sull’universale. Nel Commento alle sentenze (II, q. 15) si legge chiaramente che all’esperienza non appaiono mai idee o specie delle cose, bensì individui, irriducibilmente singoli e separati. L’universale non esiste, se non allo stato di finzione ordinatrice dell’esperienza. Alla conoscenza astrattiva dei tomisti, si oppone quindi quella intuitiva, in base alla quale Ockham recupera e rianima la grande negazione – già praticata dai logoi di Zenone, ineguagliato logico della Grecia antica – dell’esistenza di un ordine razionale della realtà. Sono le cose a portare le idee, non viceversa.
Lo schema metafisico è radicalmente ribaltato: non si passa più dall’universale (idea) dal particolare (cosa), ma è il particolare a reggere l’universale. La conoscenza evidente coincide con una ‘proposizione’ (complexum) vera, che è tale se e soltanto se ogni suo ‘termine’ (incomplexum) è conosciuto. L’evidenza della proposizione, quindi, si basa su quella dei singoli termini. Anche in questo coagulo ockhamiano di semantica e calcolo logico il discreto terminologico è gnoseologicamente preminente rispetto al continuo della proposizione.
Col definitivo collasso del tomismo, delle sue cattedrali di concetti e sistemi, il secolo XV segnò, nella storia del pensiero, un inaudito rinnovamento stilistico: la filosofia, per la prima volta, veniva a coincidere con il fertile intreccio di retorica e filologia – esperienza impossibile alle precedenti Summe.
L’aporia pitagorica (la scoperta del continuo, che dissesta il calcolo fondato sull’individuabilità del numero), da una parte, e la logica ockhamiana (fondata sulla preminenza dell’individuo sull’universale), dall’altra, tracciano la sistole e la diastole di un cuore che in età contemporanea prende coscienza delle proprie pulsazioni. In ogni battito, si sgretola la carica simbolica del pensiero, l’illusorio cristallo dei sistemi si scioglie in un liquido ustionante.
Ogni totalità è sintesi, e quindi finzione. Le sintesi – degli scolastici, degli idealisti e dei riduzionismi scientistici – tradiscono le analisi che le hanno precedute, espungendo dallo schema l’anomalia, il punto cieco, l’eccezione che fa vacillare la regola generale. Uno schema si presenta definitivo quando la sua carica simbolica è sufficiente ad esaurire in un’unità i molteplici terrori del suo tessitore. Ma il singolare è amorfo e indominabile anche nei suoi movimenti sotterranei, e nelle sue eruzioni sempre torna a dissestare il terreno piano del simbolico dal basso, come un incubo inconscio.
Il logos continuamente cerca di simbolizzare il groviglio, ma volta per volta è costretto a riformulare le proprie categorie, ad ampliare il raggio della rete. Allo stesso tempo – ed è la sua più tenace conquista – questo logos distorce il ritmico alternarsi di analisi e sintesi, distribuendolo sulla freccia del tempo, narrandolo come la propria autobiografia: la progressiva ‘storia della filosofia’. Per questo al cuore delle più alte prestazioni del pensiero contemporaneo sta lo smascheramento di questa pretesa totalizzante del sapere filosofico.
Ascolto del singolare
Esattamente qui si inserisce la critica di Rosenzweig della filosofia, che «dalla Jonia fino a Jena» costruisce se stessa sull’esclusione della morte individuale, il problema da cui ogni altra domanda muove. All’origine della filosofia sta la trasformazione del nudo e concreto fatto del ‘morire’ nel concetto universale e astratto della ‘morte’: «compassionevole menzogna» la chiama Rosenzweig, perché se tutti muoiono, la morte di tutti non è la morte di nessuno in particolare.
La logica occidentale istituisce la totalità universale e conclusa – e poiché al di fuori di essa nulla è pensabile, con questa stessa totalità la filosofia silenzia ogni pretesa ulteriorità del pensiero. Ma il grido del singolo, dell’individuo che irriducibilmente continua a morire, resta l’in-audito. Questa ulteriorità, questo evento-eccesso che il ‘nuovo pensiero’ di Rosenzweig traguarda, è Nietzsche: «Da sempre i poeti avevano parlato della vita e della propria anima. Non così i filosofi. Da sempre i santi avevano vissuto ed erano vissuti per la propria anima. Ma, di nuovo, non così i filosofi. Poi venne un uomo che sapeva la propria vita e la propria anima, un poeta, alla loro voce ubbidiva come un santo ed era però un filosofo».
Ciò che Rosenzweig contempla in Nietzsche è il collasso della classica e illusoria scissione fra l’anima personale e lo spirito universale. Le passioni e i tormenti del singolo uomo intrecciati alla sua stessa sensibilità corporea, ora sono indistinguibili da quelle leggi ‘pure’ che in lui vorrebbero parlare. («Per Nietzsche questa scissione tra altezze e bassure del proprio “sé” non esisteva; egli fece la sua strada tutto intero, anima e spirito, uomo e pensatore, una unità fino all’ultimo»). Gettando negli ingranaggi della filosofia la sua vita tutta intera, Nietzsche fa saltare il meccanismo stesso della teoresi occidentale, che non può più procedere oltre: «lui, che nel mutare delle immagini del suo pensiero mutava se stesso, lui, la cui anima non temeva alcuna altezza e s’arrampicava seguendo il temerario spirito scalatore su su fino alla scoscesa vetta della follia, dove non c’è più alcun “oltre”, proprio lui è quegli da cui nessuno di quanti devono filosofare può ora prescindere».
Ecco l’effetto-Nietzsche: l’evento decisivo della filosofia è questa vita singolare, tanto potente che davanti ad essa la temporalità del pensiero – che divenendo, continuamente oltrepassa le precedenti figure, di volta in volta inverate nell’impermanenza di quella attuale – viene meno. L’idea stessa dell’oltrepassamento (Überwindung) è ora ingovernabile. A partire da Nietzsche non vi è più un ‘nuovo’ capace di sostiuirsi a un ordine precedentemente costituito, perché è lo stesso scenario storico-filsofico – che non solo consente, ma esige il proprio oltrepassamento – ad essersi esaurito.
Parlare del singolare – questa esigenza, che la filosofia lascia inevasa, resta il compito del nuovo pensiero di Rosenzweig: non un pensiero che sorga dopo altre figure, come loro prosecuzione, ma una nuova disposizione del pensiero davanti a se stesso, capace di ascoltare l’evento, la singolarità irriducibile alle categorie logiche che la tradizione gli consegna. Qui, nella soglia-Nietzsche, stanno gli esercizi decisivi del pensiero contemporaneo, che accedono alla propria unicità stilistica solo ritrovandosi, tutti, in un comune problema: la fine del tempo storico inteso come divenire, come processo (e talvolta progresso) cronologico.
Verso una filosofia mostruosa
Se la tradizione occidentale non è altro che la storia della pretesa, cieca e grottesca, di catturare il mondo, ridurlo ai propri schemi (senza considerare la contingenza, la temporale caducità di questi), contro l’illusione perenne di una rete categoriale universale, i veri rivoluzionari indicano la filosofia che viene – non come un compito da assolvere, ma come un’esigenza da ascoltare: una filosofia che, per vedere chiaramente, è chiamata a uscire dal recinto in cui la storiografia filosofica cerca senza posa di confinarla. Un pensiero anomalo, irriducibile alla disciplina – una filosofia mostruosa, se è vera la sentenza di Cicerone, secondo cui i ‘mostri’ sono gli esseri prodigiosi che ‘fanno vedere’: Quia enim ostendunt, portendunt, monstrant, praedicunt, ostenta, portenta, monstra, prodigia dicuntur (De Div., 1, 93). Questo gorgo, che stringe mostruosità e visione nella stessa esigenza teorica, fu intuito, secoli dopo, da Rimbaud, nella celebre lettera a Demeny del 15 maggio 1871: «si tratta di rendere l’anima mostruosa [faire l’âme monstrueuse]… Dico che bisogna essere veggente, farsi veggente».
Ciò che ogni filosofia ha perpetuamente davanti a sé è l’opacità del mondo, lo specchio della materia; e quel che si chiama ‘storia della filosofia’ non è altro che l’elenco cronologico (e cronolatrico) dei nomi che il pensiero ha assegnato a questa materia. Ma questi nomi sono mere finzioni ordinatrici. La materia precede e oltrepassa i propri nomi. Credendo di comprenderla attraverso i concetti, non si fa altro che ri-conoscere quei concetti stessi. La materia restituisce ciò che le viene lanciato addosso come una superficie convessa e riflettente. Ed è il proprio volto quello che il pensiero vede, quando cerca di ‘fissare’ la realtà – che non vede mai.
Da qui, da questa consapevolezza assillante, deve partire ogni attraversamento-apertura della strada (diaporein), la quale si dà, appunto, solo nell’istante in cui la si percorre. Non prima, né dopo. Perché la filosofia è sempre e di nuovo un aprirsi la strada, un cercare nuove vie interrogando la stessa cosa (che è poi la ‘cosa stessa’: to pragma auto), riflettere l’enigma del mondo nell’infinità delle stesure possibili. Ma una volta raggiunto il cuore segreto dell’indagine, anche quegli autori che hanno fatto da guida perdono ogni primato, le loro sagome personali sbiadiscono.
Ed è necessario che sia così. Nel suo libro su Leibniz, Deleuze definisce il Barocco come il continuo e infinito piegarsi del mondo; e se per uno stesso piano, lo sviluppo (developpe) di un lato implica il richiudersi (enveloppe) del lato opposto, ciò vale anche per la filosofia: ogni gesto del pensiero, per liberatorio o anarchico che sia, inevitabilmente ostacola e oscura il cammino a venire. Se una filosofia non insegna a liberarsi dal proprio metodo, diviene vuota dogmatica. Se invece riesce a insegnarlo, allora è possibile attingere la fine del pensiero – che è poi il suo vero inizio. La rete finalmente si scioglie, restano le domande: pure e diafane come il ricordo di un luogo conosciuto da sempre, eppure mai visto prima.