Harmony Korine. Edgelording e rivoluzione
Niẓām al-Mulk: «Conosci un altro modo?»
Ḥasan-i Ṣabbāḥ: «Cerchiamolo...»
Contro cosa combatte Harmony Korine? Contro cosa ha sempre combattuto?
L’orizzonte contro cui s’infrange tutta la sua filmografia, da Gummo (1997) a AGGRO DR1FT (2023), è quello della linearità, del prevedibile, dell’algoritmico, del calcolo. Dell’esistenza stessa di un “orizzonte”, che circonda e delimita in un perimetro infinito qualsivoglia azione si svolga al suo interno - negando l’esperienziale puro, anti-logico e anti-economico. L’orizzonte, dunque, come recinzione circolare del senso. Sì può cercare un altro modo? Un oltre-orizzonte?
Nel giovane weirdo-enfant prodige che presentava Gummo come «a new kind of movie» ai microfoni del Letterman Show e nel cinquantenne annoiato che sproloquia agnosticamente di film gamification e “blinx” (nuovi, indefinibili costrutti para-artistici che vivono ognuno della propria specifica e idiosincratica medialità) troviamo la stessa irrequietezza e voglia di disfare; più violenta in Gummo, più indolente e apaticamente lasciva in AGGRO DR1FT, sempre e comunque intenzionata a disintegrare la linearità, a guardare oltre il giardino del già tracciato. I due anti-film disegnano traiettorie diametralmente opposte, salvo in ultima battuta riallacciarsi nell’avvistamento del medesimo, irraggiungibile telos, risultando in film-décadrage che fanno scivolare l’occhio sulla superficie instabile di un’immagine mutante.
Xenia, Ohio. A few years ago… a tornado hit this place. lt killed the people, left and right. Dogs died. Cats died. Houses were split open… […] l saw a girl fly through the sky… and l looked up her skirt. Her skull was smashed.
Voice over di Solomon (Jacob Reynolds), scena di apertura di Gummo
Tra cacciatori di gatti e ragazzi coniglio, Gummo è un disordine post-apocalittico di schegge e frammenti. La linearità di un supposto senso logico-causale viene meno anzitutto drammaturgicamente (non c’è nulla a cui tendere, non c’è evento che possa sigillare con la parola «Fine» l’esuberante inconcludenza di questo film-delirio), e in secondo luogo strutturalmente (gli eventi ci vengono proposti in un’alternanza rigorosamente a-gerarchica). Un puzzle film in cui il disordine non è esautorato da nessun ri-ordinamento finale.
We tried really hard to have images come from all directions.
[…]
I felt like shooting each scene on its own terms and then making sense of it afterwards. And I felt that the styles would blend, that there would be a cohesiveness.
(E. Kohn (a cura di), Harmony Korine: Interviews)
A farsi opera è proprio la relazione infinita, ecosistemica tra frammenti, a cui fa eco – sul piano stilistico-mediale – la compresenza dei formati più disparati: si passa dal 35mm a videotape distorti, con incursioni fotografiche in still frame. La compilation soundtrack – caratterizzata da tagli abrupti e interpolazioni, che lasciano imprevedibilmente spazio a perturbanti voice over – scivola senza soluzione di continuità dal death metal di Burzum al rockabilly di Buddy Holly.
In questo informe subbuglio, a ipnotizzarci sono i personaggi: una costellazione di freaks uno più memorabile dell’altro: dai fratelli skinhead-parricidi, ai bambini cowboy di ultra-destra che uccidono Bunny Boy a colpi di pistola giocattolo, fino al delirante “Boy on Couch” interpretato dallo stesso Korine. Ogni abitante di Xenia s’impone alla nostra attenzione per la sua vividezza iperrealistica, costringendoci a una sorta di strabismo fruitivo: vorremmo seguire in fondo ogni possibile diramazione dell’ecosistema, in un’impraticabile irradiazione centrifuga priva di protagonisti.
Laddove Gummo disintegra il lineare con un attacco frontale, dispiegando tutta la sua potenza di fuoco, AGGRO DR1FT compie l’operazione inversa. Il nuovo Korine cammina su una linea idioticamente retta, priva di parallele o tangenti, inciampi o rotture. La linearità si essenzializza in una paratassi tersa fino alla rarefazione assoluta. Il risultato è [u]n film d’azione che nega l’azione, fatto di melancoliche attese, vaneggianti litanie e drifting per le strade di una Neo-Miami prossima all’Apocalisse.
I personaggi abbandonano l’efficacia icastica di Gummo, bidimensionalizzandosi in figure, NPC sottili ed evanescenti. La stessa polarità tra Bene e Male, incarnata nello scontro tra l’angelo assassino Bo (Jordi Mollà) e il demoniaco Toto (Joshua Tilley), non è che un escamotage ottico per imprimere al film un qualche movimento. Fino alle battute finali del film, una teofania vaporwave che annichilisce ogni malignità – e ogni dicotomia: «Love is God. God is love. Forever».
«Where the rainbow ends...»
Dove non arriva più la fotografia di Benoît Debie (autore della fotografia di Spring Breakers e Beach Bum), a spingere verso nuove frontiere coloristiche il cinema di Korine sopraggiunge la camera termica di Arnaud Potier. Un’ipercromia cangiante diluisce le differenze tra una figura e l’altra, come tra una figura e l’ambiente che l’accoglie, in una sequela di ondulanti tele marmorizzate. Le immagini sono in secondo luogo alterate da sovraincisioni realizzate con software di A.I. e grafica 3D – complice un’aggressiva color correction: un lavorio che sovraccarica il film al punto di ricondurlo allo stato di pagina bianca, pellicola vergine. Pura, fluorescente photogénie.
È sicuramente nella colonna visiva – coadiuvata da quella sonora, composta dai martellanti beat di AraabMuzik - che risiede la novità e la deflagrante potenza di un film-sensorium che punta a essere puro aisthema. Nella dolce illusione di poter bypassare la struttura referenziale che abita con il solo obiettivo di trascendere.
Definitivamente disinnamoratosi del cinema, Korine sceglie di varcare le Colonne d’Ercole del linguaggio attuale, immaginando una next phase in cui sentirsi svincolato più che da vaghi, costrittivi dettami stilistico-grammaticali, da una noia assassina.
Ma si può abitare oltre l’orizzonte? Non si è già piuttosto contribuito da sempre a estenderne il dominio, stretti in una nuova e più ampia spira?
E, dall’altro lato, nella misura in cui si narra per de-narrare, si sfrutta il cinema per fare del post/anti-cinema: «Si può fingere di parlare una lingua?» (J. Derrida, Violenza e metafisica).
[…] we weren’t really trying to make a movie. It was just something else.
(E. Morse, Harmony Korine on His New Film and Paintings)
Korine inizia a girare il suo ultimo film senza sapere cosa sta facendo. L’intento iniziale è raccogliere materiale su cui sperimentare nuove tecniche di post-produzione, ed è in quel momento di ignoranza che si condensa il radicalismo rivoluzionario del non-film. Ma, nel momento in cui si dà nella forma del lungometraggio, AGGRO DR1FT è già vecchio, stantio, reazionario. Sacrifica la sua esplosività radiante sull’altare dei titoli di coda e del Lido di Venezia. La rivoluzione si scopre miniaturizzata, costretta nello spettro della semplice agitazione. Dell’edgelording.
Il linguaggio è atrofizzazione del potenziale. Ma senza il solidificarsi dell’alterità silente che vive oltre l’orizzonte, non avremmo espressione.
La sfida è impossibile: abitare un nuovo linguaggio sempre nella sua fase inaugurale, prima che s’ipostatizzi nella forma statica dello strutturalmente ripetibile, nel mercato dell’intersoggettività. Una battaglia il cui gesto è lo slancio sbilenco dell’avvenirismo, volto a strappare a morsi un pezzo di futuro ancora crudo e pulsante al tempo, prima che marcisca.
Godiamoci AGGRO DR1FT come il potenziale che affiora da un magma di possibilità non ancora algoritmato, come un bagliore, un proiettile folle esploso in direzione dei nostri occhi lucidi. Consapevoli che è tutto già morto, che un’altra ferita è stata inferta all’impossibile.
Non si può abitare l’oltre-orizzonte.