Ultima scena americana
Perché poi la verità a ogni costo?
Niente… tutto inizia sempre da qui no?
Niente e poi, così, d’un tratto, tutto. Qualche molecola, due o tre vettori, un po’ di forze ed eccoti un mondo. D’altronde, pure Dio, se non mi sbaglio, partì da niente. Non sia mai, non fraintendiamoci, non mi propongo di fare né altrettanto né tantomeno di più, sono molto più incapace, meno geometra e di certo più pigro. La pigrizia è una condizione dell’esistenza, della mia esistenza, ma forse anche della vostra, incavata dentro un certo modo di portarsi dietro il corpo, un po’ così no? accasciati e slabbrati, ormai esausti, dal niente non facciamo qualcosa, ma lasciamo che qualcosa si faccia, d’altronde, il mondo, ce lo siamo sempre trovato davanti: tocca andare d’inerzia quaggiù. Eppure, ahimè, si deve pur sempre fare qualcosa per innescare il niente, per dargli una miccia, per farlo accendere, ma Francis me lo diceva sempre, a giocare nelle vecchie miniere, che poi alla fine serve mica tanto per un’esplosione, per essere dinamite più che uomo: ecco, il dinamitardo, lavoro da pigri. Alla fine si tratta soltanto di trovare l’occasione per una combustione e si dà il caso vi siano uomini che si portano quotidianamente appresso una combustione, lì, tra le labbra, tra il medio e l’anulare, e poi di nuovo tra le labbra, che sbuffano, come piccole locomotive lanciate sui binari della metropoli a qualche centinaio di chilometri orari, che battono i secondi e frantumano il tempo, pronte a schiantarsi. Alcuni fumano velocemente, schizofrenici, schizzati, introducono palate di carbone nella caldaia senza mai fermarsi, con gli occhi sbarrati, gialli in faccia, guardano davanti a loro il muro a pochi istanti di distanza che si mangia i binari; altri, invece, accompagnano la sigaretta placidamente alle labbra, già deragliati, sanno che non ne vale la pena e sperano soltanto che lo spazio da percorrere sia infinitamente più grande del tempo per attraversarlo. Io, per parte mia, ero già deragliato la notte del 15 dicembre 2023 quando il niente della mia vita decise di esplodere… e santo cielo, a pensarci oggi, è proprio vero che una vita disgregata non è mai esente da colpi micidiali.
Accasciato sul bancone di un vecchio bar, di cui ormai a quell’ora tarda della notte ero parte del mobilio, con la barista che ogni tanto, inclinando i bicchieri e spinando le enne millesime birre della serata, mi rivolgeva delle frasi sconclusionate per darsi l’aria di sentirsi la padrona di casa, io, non soltanto non capivo, per un’evidente difficoltà a seguire l’articolazione dei discorsi dovuta a chissà quale effetto strano della fatica di vivere, ma nemmeno mi sforzavo di risponderle con un sorriso, ed è grave, lo sanno tutti. Non era più il momento dei sorrisi, ero passato a un’altra era geologica dove i milioni di anni sono esattamente uguali identici l’uno all’altro, dove non puoi fare nient’altro che fossilizzarti e dalla quale uscii soltanto grazie alla mia dipendenza. Mangiato dalla voglia di fumare una sigaretta che ti prende alla trachea, uscii dall’angolo del ring, fracassato di botte con un moto di spirito degno di toro scatenato, presi la via dell’uscita con una punta di tabacco nelle tasche attraversando il vociare, di cui ripresi coscienza a spallate. Fuori era tranquillo, non so che significhi ora dire che fuori era tranquillo, perché fuori era esattamente uguale a dentro, gente che chiacchierava e rideva o forse non era uguale a dentro, proprio per niente uguale a dentro, certo la gente parlottava anche fuori, figuriamoci, si sono mai state zitte le persone? Animali da compagnia vocalizzati, blaterano, gesticolano, si chinano e ciondolano, piegati, sull’attenti, spavaldi, distesi e ripiegati, implicati nei loro vestiti, soffocanti… Quanto sono soffocanti le persone, dentro come fuori, ma fuori lo spazio era diverso, meno claustrofobico, più aperto alle correnti d’aria, si ecco, tutta qui la sua tranquillità, forse, in distanze dilatate. Non ho studiato fisica e non ho studiato affatto, ma nella miniera capisci in fretta che il suono impiega più tempo a percorrere distanze dilatate, sicché, fuori, a differenza che dentro, per pochi memorabili frammenti di tempo nessun suono perveniva alle mie orecchie. Ahimè, non è sufficiente l’assenza di suono a frequenze intervallate per potersi reggere sulle proprie gambe, non è sufficiente per un uomo distinto già salvato da Dio, figuriamoci per un minatore qualunque a fine giornata, motivo per cui ricordo che cercai e trovai il sostegno di un muro, incrociai un piede sull’altro, il sinistro con la pianta ben salda a terra, il destro, più a sinistra del sinistro, che scalpellava con la punta il cemento del marciapiede, sguardo basso come sempre, testa china per far cadere gli occhi e risparmiargli per una volta lo sporco lavoro di sostenere la linea dell’orizzonte, accendino, clack, combustione, sigaretta accesa. Tutto quello che era in mio potere fare, l’avevo fatto, poi è successo.
È successo cosa? Cos’è che è successo? È successo qualcosa che anche se ve lo dico, Dio mio, se anche sto qui a raccontarlo, a saturarlo di parole, a soffocarlo di voci, a decidermi di sciogliere lo scilinguagnolo, sarebbe da non crederci… Una di quelle cose che è inutile sbrodolarci sopra parole come nelle cene d’estate nelle tavolate di amici, affogarle in sguardi e discorsi, pose e teatro, bulimia, tonalità, gesti, sintassi… si sa, ci sono cose che si possono solo vedere, meglio ancora sentire, che è inutile raccontarle, a malapena si possono vivere. Vorrei stare in silenzio, dovrei stare in silenzio, ma queste cose che dovrebbero essere solo coperte da una coltre di oblio e silenzio, queste cose, sono quelle stesse cose che lasciate lì, tra le viscere delle proprie budella, tra le pareti rocciose e scoscese dei propri abissi, iniziano a proliferarti dentro, a salire come piante rampicanti inerpicandosi ovunque in cerca di punti di luce, e arriva un punto in cui non riesci più a sopportare questa crescita, questo brulichio, questa pianta cresciuta dall’intestino e ti tocca aprire bocca con la mascella frantumata e cantare, come tutti, il tuo canto di gloria. Fu una folgorazione, e una folgorazione non si può tenere all’oscuro a lungo, ma non fu una folgorazione semplice, sì, certo, tutto ad un tratto, come una folgorazione, ma non un fulmine che squarcia il firmamento, uno sparo, un proiettile, due ettogrammi di piombo che ti perforano la clavicola. Un fulmine si schiodava dal cielo, come all’inizio di tutto, e vedevo i chiodi saltare uno a uno nel mentre che il lampo si componeva delle sue particelle elettriche e io lo vedevo, oh sì che lo vedevo, e lui si tracciava, si faceva spazio, i chiodi saltavano e precipitavano e io lo seguivo, come seguire un rametto trascinato dalle acque di un fiume, gonfio, strabordante, che attraversa i popoli e i tempi e fila via inesorabile, più veloce se lo guardi nel centro, più lento a guardarlo alle estremità e poi il rametto diventa fiume e tu diventi fiume e tutto diventa fiume, tutto trascinato via, il rametto, tu, i popoli, i tempi, dietro agli alberi, girata l’ansa, verso la foce. Calma piatta.
Lo ricordo bene, stavo lì tranquillo, come vi ho detto prima no? Su una riva d’asfalto e poi a un certo punto, dal lato destro del mondo che mi scorreva di fronte, non proprio, dal lato destro del mio campo visivo, ma appena aldilà del mio campo visivo, cioè fuori campo, ecco dal fuori campo posto sul lato destro del mondo, sentii provenire, debole ma chiara, poi mano a mano sempre più nitida e decisa, sempre più vicina al mio timpano destro, che mi apriva uno spazio, lì, nel mio timpano destro, uno spazio enorme, liscio, disteso, delle grandi praterie alla luce d’agosto dove tutto resta necessariamente immobile, sentii provenire come una musica. Qui, in questa squallida via di merda qua fuori, nella periferia post-industriale dell’Impero, c’era ancora, ad accadere, qualcosa di americano, ancora un’ultima corsa allo spazio, forse l’ultimo sussulto dei motori dell’Apollo 11, e mi sentivo lì, in quell’interminabile istante di carburante e fiamme in cui ancora e per l’ultima volta tutto stava andando secondo i piani. Ho girato il collo, ho spostato la camera da presa, ho aperto il campo e sentivo la metro sferragliare nel sottosuolo, il sangue nelle vene che fibrillava e i bulloni della grande sopraelevata di ferro e d’acciaio che si sforzavano di reggere più del solito, ogni particella era avvolta da un tremolio insostenibile e infine… eccola. La Grande Balena Rosa, che solcava il mare d’asfalto e implacabile si avvicinava dal fondo della strada: Cadillac Serie 62 Coupé de Ville, anni ’50, Elvis rose, tettuccio bianco, grande muso tagliato da fanoni d’acciaio, buchi bianchi di pura elettricità, grande ammasso di onde compatte che facevano scivolare dolcemente l’occhio verso la pinna posteriore, e dietro, l’asfalto, la via, i palazzi, la sopraelevata, le persone, tutto il paesaggio si perdeva in nient’altro che schiuma. Che tenera che è la notte.
Avrei potuto colpirla, ormai era lì, davanti a me, oh sì che avrei potuto colpirla con la mia fiocina ed entrare nel novero dei grandi schiumatori del Mare del Nord, ma no, rimasi immobile, stringendo i denti, per non cadere in ginocchio. Mi dissi che non era possibile, che non credevo ai miei occhi, falsi, bugiardi, che già in passato mi avevano ingannato, già altre volte mi velarono la vista, ché non si vuole mai vedere troppo, perché non si è in grado di vedere abbastanza. Diedi una rapida occhiata alla sigaretta, il filtrino… corto, la cartina… corta, mi accertai che fosse una sigaretta, ma all’epoca non fumavo erba che nelle più disastrate… lo sapete, le cose si stavano mettendo male, fu lei a colpirmi per prima. Lo spazio oceanico con cui la Cadillac si era introdotta nella mia vita, ora, si era rapidamente ristretto, aveva risucchiato i suoi lembi e convergeva tutto nella sagoma disegnata da un finestrino. Bastano due movimenti per mettere a repentaglio una vita, uno, per farla crollare: il primo orizzontale, la Cadillac continuava il suo lento passaggio, “non correre, pensa a noi” riportava scritto sulla targa anteriore; il secondo in profondità, dal punto di lancio delle mie pupille nel tentativo di oltrepassare il vetro del finestrino e passare nell’intercapedine di un abisso; e poi il terzo, il più terribile, il più naturale, un collo che si gira e uno sguardo che si lancia, dal finestrino verso il punto che mi sforzavo ancora di essere, nel tentativo di mantenere i miei confini senza sbregarmi, senza cedere, senza colare via. Ci sono movimenti, nella vita di ogni giorno, che richiedono la contrazione di ogni singola fibra del nostro singolo corpo per poter essere a malapena sopportati, questo, era uno di quelli.
Non so perché lo feci… anni prima… nella miniera… accadde semplicemente, come cadono gli eventi, come cadono le persone, come cadono le vite. La creazione è la caduta di Dio, la storia è la caduta degli uomini, la mia vita è la caduta di Francis. Stavamo lì come sempre nella vecchia miniera, nati insieme, cresciuti insieme, nelle viscere della terra, a sentirsi più in basso di tutto, protetti da milioni di anni. Tempo passato ad essere preceduti dal buio e a inseguire l’aria… mi fa ridere l’idea di inseguire l’aria, è una cosa un po’ ridicola no? L’aria si respira, si va contro l’aria, ci si fa trascinare dall’aria, ci si fa prendere a schiaffi dall’aria, ma inseguirla, come se nascondesse qualcosa… che strana cosa, eppure ho passato tutta la mia infanzia stando attento a percepirla, come a catturarla, a inseguirla per trovare un pertugio, un passaggio, una nuova stanza, a strapparle i suoi segreti e come li conosceva Francis i segreti dell’aria, nessuno mai credo. Un giorno d’inverno, uno di quei giorni tagliati dal gelo, tutt’a un tratto percepimmo una corrente densa, quasi si poteva toccare, una corrente che non fuggiva, ma attirava a sé, che Francis si mise subito a seguire come inebriato. Attraversammo nuovi bui, mai visti prima, diverse tonalità di nero fino a quando l’aria si fece più forte, quasi violenta e iniziò a precipitare… tutto lì della mia vita iniziò a precipitare. Dietro un grande masso, che a fatica ci preoccupammo di spostare, si apriva davanti ai nostri piedi una cavità profonda, forse la tromba di un vecchio ascensore usato dai minatori: mai, mai davvero, avevo visto un nero così intenso, così capace di divorarsi ogni infinitesimo luccichio. Era certo, avevamo trovato l’abisso. E l’abisso iniziò a parlarmi, a smuovermi qualcosa dentro, ad aprirsi dentro di me e fui pervaso da una tristezza sconfinata, da tutta la tristezza del mondo, dei tempi, delle ere geologiche, il dolore delle pietre che a milioni di metri cubi mi schiacciavano la testa. Forse eravamo arrivati al centro del dolore cantato dai poeti, ma ero bambino, e non fui in grado di reggerlo. Provai anche una sconfinata gioia, quella sui volti degli anziani, ma fu per poco, il tempo di allungare un braccio e, senza neanche sapere bene il motivo, spingere Francis nel buio. La morte s’aggrappa ai gesti. Lo vidi cadere per un tempo interminabile che dura ancora oggi. Francis cadde in silenzio, non una parola, non un sussulto, non un grido, a peso morto attraversò il buio e resto fermamente convinto che a distanza di anni non abbia ancora toccato il fondo… è un peccato… deve essere un fondo di rovi e di rose, dove le Amazzoni si leccano le ferite intessendo corone di fiori. Ricordo che a un certo punto della caduta, però, girò il collo e mi lanciò uno sguardo, con un volto impassibile, come un eroe greco nella tensione più assoluta, indifferente agli eventi della storia, già sazio dell’eterno che risplende nel buio della notte, messo lì, come uno sfondo, una parete per lo staccarsi di quello sguardo. Ma Francis non era un eroe, e quello sguardo fu il suo tentativo di non cadere fuori da questo mondo, di aggrapparsi al tempo, di aggrapparsi a me. Ci riuscì quel piccolo bastardo, eccome se ci riuscì ad aggrapparsi a me, atterrito, me lo porto ancora dentro: Francis cade da sempre dentro di me. La deglutizione è l’inizio di una discesa, giù, nell’esofago, verso le budella di una vita, oltre il fondo abissale dell’anima. Forse non è niente, ma per me è già tutto: la deglutizione di una colpa, ingoiare una goccia di petrolio e seguirla, nel pentimento di lasciarla andare, nel conato di vomitarla fuori, nella fuga da un delitto ormai commesso e nell’abbandonarsi, nel lasciarsi cadere quando la goccia si infiamma e non restano che le braci ardenti di una volontà di impotenza. Da quel momento, lì sul bordo dell’abisso e qui sul bordo della strada, non sono che braci ardenti di una volontà di impotenza e mi chiedo quando finirà la caduta di Francis, che poi forse, sapete, nient’altro è che la mia caduta.
L’uomo al volante della Cadillac aveva appena staccato gli occhi dalla strada e si era girato verso di me, e mi fissava, e io sudavo, e non sapevo cosa fare, e mi chiedevo chi cazzo fosse questo, e no, non mi chiedevo niente, contemplavo la scarica di piombo che dal suo sguardo diritta dritta raggiungeva i miei occhi, li trapassava e colpiva e riduceva in brandelli le mie membra interne, mentre un vociare stridulo mi ripeteva nelle orecchie lui sa… lui sa… I colpi provenivano dall’esterno, ma non colpivano il mio esterno, no no, finivano direttamente a colpire il mio interno e fracassavano tutto ciò che incontravano, e io, miracolosamente, stavo in piedi solo grazie alla contrazione della pelle. Un corpo fucilato inizia a dimenarsi, lo vedi, non risponde più agli urti per propria volontà, si mette a fare una danza strana, frenetica, tutto sobbalzato di qua e di là, senza un ordine, scomposto, è una morte che ombreggia e si fa spazio tra i passi di taranta, come quelli di una baccante, ecco, dentro di me una baccante divorava le carni in brandelli e si scuoteva il petto, sparagmòs! Ma fuori ero impassibile, perfetto, apollineo, come una statua di marmo con gli occhi ormai vuoti, come se tutto davanti a me fosse scolpito nella pietra, fino a quando la scarica finisce e non resta che un cumulo di carne macellata. Macellare il marmo, non si può credere, non fu nient’altro. Soltanto una volta, anni prima, vidi un nero profondo tanto quanto quello delle pupille di quest’uomo, e lì nelle pupille di quest’uomo, vidi Francis cadere e io cadere con lui e mi guardava, ancora una volta, senza chiedermi niente, senza dirmi niente, senza lasciarmi una parola con cui dare senso al mondo, ancora una volta lasciandomi lì, nel nulla che attraversa le ere geologiche e riposa quiescente sotto i crepacci. Stavo inciampando fuori da questo mondo, e con la faccia quasi a terra, in una terra che non c’era più, in un fondo che non fondava più, soffocato da un telo nero, mi ripetevo che non era possibile cadere fuori da questo mondo! Mi trattenevo, mi aggrappavo allo sguardo di quell’uomo come agli sguardi di tutta una vita, quegli sguardi omertosi che non mi avevano mai detto niente di tutto quello che avevano da dire. E Andromaca mi chiedeva se lì nell’abisso, quella volta, in miniera, vidi Ettore, e Cavalcante mi chiedeva se lì nell’abisso, quella volta, in miniera, vidi il figlio e le troiane tutte mi chiedevano in coro se lì, nell’abisso, quella volta, in miniera, vidi i figli di Ilio morti in battaglia e le madri dei veterani, e le madri della storia e la madre di Francis mi chiedeva se lì nell’abisso, quella volta, in miniera, vidi il figlio. Non fui in grado di dare loro riposta, forse li vidi tutti, forse non ne vidi nessuno, forse ero il solo vivo nella vivida e ferma nullità di un ricordo, ma inesorabile cantando la carovana dei figli marciava verso quel passo in più senza fondo.
A pensarci, quell’uomo, per come lo ricordo ora, adesso, mentre ve ne parlo, mi ricordava qualcuno, l’avevo già visto da qualche parte, non lo so… nella diversità più assoluta di un mondo alieno si prova sempre e comunque a cercare un piccolo frammento che porti con sé un minimo di familiarità, un già visto, un tranquillizzante per avere soltanto un po’ di paura e non una sconfinata angoscia. Ma ecco, ci sono! Quel soggetto era fottutamente identico a Spencer “Big Daddy” Bennett, c’aveva i bisonti nella testa. E come Big Daddy, sulla testa, portava un cappello bianco, una specie di Borsalino, uno Stetson probabilmente, da cui scendevano dei folti capelli bianchi a inquadrare un viso magro, scavato, tagliato da linee rigide, veloci e da un profilo quasi greco. In punta di naso, un naso appuntito, pronunciato ma non ingombrante, erano scesi, lasciando vedere il taglio degli occhi, un paio di occhiali da sole neri, direi dei Ray-Ban Wayfarer, ma non me ne intendo proprio per un cazzo di occhiali da sole, per me sono tutti Ray-Ban Wayfarer gli occhiali da sole. Scendendo, un baffo bianco, a cui il nostro amico curava attentamente le punte, si adagiava su delle labbra sottili, serrate come poche volte mi è capitato di vedere, da cui saranno state proferite non più di un migliaio di parole, e se non contiamo smoke si scende sicuramente sotto il centinaio, mi capite, delle labbra fatte per fumare, certo, per tenere sigarette sigari canne, sicuramente, per baciare non lo so, è possibile, ma è difficile, tutte le labbra sono fatte per baciare e quindi non sono mai adatte fino in fondo, non so se è chiaro. Cinquant’anni di vita circa, cinquecento parole circa, fanno una cinquantina scarsa di parole all’anno, che fanno comunque meno di cinque parole al mese, non sono tante, è chiaro, eppure sufficienti, lui era lì a dimostrarlo, si può vivere con cinque parole al mese, non è impossibile, anzi, forse, è quello che ci resta da fare quando abbiamo finito di raccontare, ma lo sappiamo che non si finisce mai di raccontare e quindi continuiamo a parlare. Questa specie di Big Daddy indossava una camicia bianca, col colletto alto, intorno a cui girava un fiocchetto nero; sopra la camicia, un gilet, anch’esso bianco, ornato con qualche ghirigoro e pizzo barocco; sopra il gilet, una giacca, ovviamente bianca, ma bianca davvero, vergine direi e nel taschino di questa, una rosa rossa, accesa, infuocata, un piccolo fuoco di petali, lì, nel taschino e allora forse capii che Francis aveva toccato il fondo: nessuna luce, eppure un colore. Un cavaliere bianco del Texas in questa fottuta vita senza regole, di passaggio, come di passaggio erano state tutte le vite che Dio aveva fatto la cortesia di farmi incontrare in questa vita terrena. E lui nella purezza del bianco le conteneva tutte, le vite di passaggio che il Signore mi aveva fatto la cortesia di incrociare nel mio passeggio, proprio tutte eh, mica ciance, c’aveva il sorriso delle madri, lì, nel taschino. E poi le pupille più nere in cui Dio mi aveva fatto la cortesia di cadere. E lì, l’unica vita che nella mia non fu di passaggio continuava la sua discesa o forse no, forse ormai si era adagiato tra i rovi e l’abbiamo fatta finita. Brutta storia la vita eh, pure a stare sul bordo di una strada ci si rischia la pellaccia. Poi, d’un tratto mi schiodò lo sguardo di ‘dosso, ripresi a respirare, nuova aria mi inondò i polmoni. La Cadillac passò… la seguii con lo sguardo fintantoché si allontanava, lentamente… infine, creò un foro sul lato sinistro del mio campo visivo, un buco nero che si risucchiava ogni cosa, la strada, le case, le persone, i lampioni, le madri, la sopraelevata, Francis, la miniera, le troiane, come se avesse tolto il tappo a una grande vasca e l’acqua avesse iniziato a scolare giù, inesorabile, dentro le tubature del mondo. Tutta la via non era più ormai che una grande cloaca. È finita così, con la Cadillac che si è trascinata via tutto. Una rosa sull’asfalto, un filo di musica nella testa, sono rientrato al bar.
Non parliamone più.
Nessuna società umana resisterebbe a due mesi di verità.