Scarnare gli ossi. La trilogia dei perdenti di Aki Kaurismäki
Ce ne siamo accorti da un pezzo: la cinematografia soffre di raucedine e il suo verbo ormai consumato ha lasciato spazio al managerialismo dei CEO e al monopolio coercitivo e lobotomizzante delle piattaforme di streaming (che hanno oltrepassato la linea diventando case di produzione). Altrettanto significativa è la risposta del pubblico che denota sintomaticamente una certa docilità da animale addomesticato; come per l’offerta variegata di mangime, le proposte di intrattenimento vengono sottoposte alla (dis)attenzione dell’animale umano al quale nulla fa più differenza (e come dargli torto). Ciò che conta è che la mangiatoia sia piena, che lo schermo trasmetta, che l’illusione si assopisca; in fondo tutti sappiamo che il mangime, di qualunque marchio esso sia, ha sempre lo stesso sapore. Insomma, la settima arte, oggi più che mai, si è fatta fagocitare in quell’Euthanasia Coaster che è il commercialismo, entrando de facto in quelle strutture economiche che si sono arrese all’aggettivo fast. Questo modus operandi totalizzante si potrebbe trattare alla stregua dello storicismo, ovvero di un fare che non ammette interruzioni cronologiche né frantumazioni nell’immensa epica del mondo. A distanza di quindici anni, il motto There is no alternative thatcheriano, ripreso da Fisher come tesi del suo Realismo Capitalista, continua a ripercuotersi in tutto l’immaginario, anche artistico. Questa è la narrazione che vige, questo è il cinema che si fa oggi, e più di qualcuno sembra compiacersene.
Tuttavia, dietro lo specchio delle brame, si nasconde come un oggetto dimenticato, per certi versi archeologico, l’avventuriero del quotidiano, che trascina la propria vita lungo i margini della società, della storia e anche del cinema. In questa discordanza con la spettacolarità della filmografia contemporanea e nella miseria delle vite marginali, Aki Kaurismäki ha trovato il fertilizzante per far germogliare la propria estetica degli avanzi. Un’estetica che non disdegna la carne rimasta sull’osso e che anzi la riesuma dai cassonetti per collocarla come focus delle sue (micro)storie. Ecco, il regista finlandese è un archeologo del postmoderno che, con la sua ricerca centrifuga, compie i propri scavi lungo i margini di Helsinki. Le sue spedizioni sembrano essere state molto fortunate, in particolare nella seconda metà degli anni 80, dal momento che tra la chincaglieria della periferia ha rinvenuto i suoi feticci Matti Pellonpää e Kati Outinen, presenti in tutta la cosiddetta “trilogia dei perdenti”. Su di loro Kaurismäki modella l’immagine di un Sisifo moderno, che subisce l’imminente, o almeno sempre possibile, cortocircuito del tentativo di un’ascesa sociale. Questi idoli di fango, non potendo andare al di là dei limiti ad essi prescritti dalla struttura economica e dalla loro posizione in essa, sembrano continuare a vivere per sfoggiare la loro inevitabile e irrisolvibile subordinazione alla società.
Che siano netturbini (Ombre nel paradiso, 1986) o fiammiferaie (La fiammiferaia, 1989), i personaggi di Kaurismäki sono tutti necessariamente dei prigionieri a cui viene concessa, come unica forma di libertà, quella data dal loro costante status di liberazione dalla speranza. Rosicchiata dalla miseria e dalla precarietà, questa gente dei margini si illude di trovare una panacea in piccole azioni che si compiono o si subiscono, e che certamente denotano una volontà ridotta all’osso. Allora l’acquisto di un vestito nuovo da sfoggiare in discoteca (1989) o il comparire tra i lavoratori selezionati per la giornata (Ariel, 1988) sono da considerare come la prova di un’esistenza vacillante all’interno di una lotta per la sopravvivenza che cerca di farsi spazio nel mondo delle apparenze. Tuttavia, tanto il vestito quanto la mansione giornaliera per il precario sono un’illusione che è destinata a rimanere tale: il vestito si dovrà restituire per sopperire al mantenimento dei genitori improduttivi mentre i posti per i lavoratori sono al completo; non ci sono orizzonti, forse solo qualche vaga utopia, per Sisifo, che si ritroverà sempre con il proprio fardello ai piedi della montagna. La storia ha esaurito le sue promesse, se mai ne ha avute per loro, e di conseguenza non ha più un passato né un orizzonte da offrire all’outsider che si ritrova assediato in un eterno presente. Non appena da un lato si sussurra un nuovo cielo per la storia, come nel caso del collega netturbino di Nikander, protagonista di Ombre del paradiso, in procinto di insubordinarsi per aprire una propria azienda, dall’altro si proclama a voce alta un tempo della catastrofe, rappresentato dalla sua morte immediata. In questo dramma ridotto dell’esistenza, l’irruzione di una comunità nello spazio di un’altra, la borghesia, che si presentava eterna e cristallizzata, è una lotta persa contro un mondo che non si può far deragliare, contro un avversario che conosce già le nostre mosse. L’uomo solitario di Kaurismäki si sintetizza nella sua sconfitta immanente, nell’impassibilità espressiva propria dell’era della macchina in cui il capitalismo obsolescente gli offre i brandelli dello stesso copione sociale, economico e storico che lo esclude.
È di avanzi, d’altronde, che è composta la dieta dialogica dei personaggi. Il silenzio è sempre il pasto principale, ovvero un piatto vuoto che ritrova un’utilità nella sua collocazione nello spazio facendo scaturire la propria potenza corporale ed estetica. Nella miseria verbale, tutto diventa significativo all’interno di questi contenitori dall’arredamento minimale in cui vivono i personaggi che si presentano, alla pari della merce, come il risultato di un processo di svuotamento del mondo che il paradigma della mercanzia effettua. Gli attori reificati, meccanicamente espressivi tra scarti incorporati alla mobilia, diventano così gli operatori di una regola estetica che sembra dire che la vera opera d’arte ha sempre misura umana e, nella sua essenza, è quella che dice meno. Sottraendosi a una rappresentazione totale della dimensione corporale, il regista finlandese evidenzia il proprio gusto archeologico per i frammenti grazie ai quali impone il proprio ritmo cinematico. I primi piani di un petto, di un volto, ma soprattutto delle mani, à la Bresson, vengono qui impiegati per costituire la morfologia delle sequenze che ritraggono una comunità abitata da lunghe pause e da tempi diluiti che si ammansiscono in atmosfere dove i personaggi fumano, bevono in solitaria o ascoltano la radio in riva al mare. Nella trilogia dei perdenti, questa comunità si regge sulla costante della solitudine in cui l’operaia o il lavoratore precario cercano di ritagliarsi il loro posto nel mondo liberandosi tanto dalla precarietà quanto dall’onere di acquisire una coscienza di classe. Non c’è, infatti, la volontà di mostrare la routine alienata con lo scopo di fare denuncia sociale, il ritmo della fabbrica che scandisce i loro movimenti viene sempre tradito dall’espressività contenuta dello sguardo; né, tanto meno, il cineasta si affranca di quell’idea incenerita di comunismo che sostiene l’uguaglianza immanente a tutti gli uomini, dal momento che, in questa comunità di uomini soli, la solidarietà di classe è merce rimpiazzata da un individualismo che ha modificato i codici e i modelli per creare una nuova comunità di emarginati che compiono il loro tentativo di entrare nel mondo visibile delle apparenze. Un ritorno nel contesto della storia e della società che non comporta una scalata, una verticalità del tragitto, bensì un dispiego orizzontale e rizomatico teso a dar prova della propria esistenza di fronte allo sguardo discreto dell’altro con cui si condivide lo stesso cielo. Forse si trova tutta qua la ragione dei silenzi. Il netturbino, la fiammiferaia o il disoccupato sono troppo invischiati in una corsa per la vita, già persa in partenza, che li porta a sperimentare esperienzialmente, a esperire sperimentando, ovvero a estendersi nell’improprio.
I personaggi hanno ben poco da interpretare e comprendere, nessun entusiasmo o passione irrefrenabile da assimilare e sventolare, perché tutto ciò semplicemente non esiste, eccede in questi personaggi discreti che conoscono la preziosità di un’aderenza con l’altro nell’offerta di un piccolo gesto o di un dettaglio. Anche l’amore, seppur in un primo momento si possa considerare un margine in cui si palesa una certa sensibilità liberata, si presenta in realtà come una semplice contiguità corporale, scarna di parole, che scaturisce nella visione ammorbante di una corazza inespugnabile e inscalfibile. Sembra quasi che il regista preferisca assegnare questa fatica comunicativa alla musica che diventa parte integrante della narrazione, contando soprattutto sul proprio vezzo a far apparire musicisti professionisti all’interno delle pellicole. In altre parole, questa approssimazione amorosa si fonda su una fallacia fondativa che rende impossibile la somma di due individui in quanto, sostanzialmente soli, si devono accontentare degli avanzi, ovvero di una taciturna condivisione della propria solitudine. Quelle “lanciate” allo spettatore sono situazioni diluite dai tempi morti, riassumibili nella schiera di bottiglie vuote di aranciata che la fiammiferaia accumula accanto a sé in discoteca così come nella contemplazione fumosa ed ebbra da parte di Taisto, protagonista di Ariel, di ciò che (non si) vede all’interno della balera. Cercare nuove lingue in cui stare zitti: sta tutta qua la logica esistenziale dei personaggi. In questa trilogia, Kaurismäki sembra aver compreso a pieno la dura legge della vita, dove solo i quattrini fanno ballare i burattini.