Le rondini (1° frammento)

Folio from a Bestiary and Herbal, ca. 1600, Attributed to Iran, Isfahan, Opaque watercolor and gold on paper, 33,3 cm x 24, 4 cm.

Una strana vita animale attraversava gli oggetti, si agitava dietro la porta, nel buio degli angoli, sotto il letto, dentro gli armadi, fumigava nel tiglio dietro le vetrate su cui la pioggia colava in gocce lunghe e torte. L’espressione di una statua dorata del Buddha diceva «Io so qualcosa che tu non sai», e la statua teneva sul grembo una mano; involontariamente si era toccata allo stesso modo, aveva stretto la mandibola e dato un sospiro trem▋la nonna era morta in quella stanza, e ora la sua fotografia diceva «Se non c’è adesso, come può esserci stata?». Nella fotografia era malata da anni: i capelli opachi sottili, alghe, non più foglie di acanto; sotto gli occhi dei granuli bianchi in impronte indicali violastre; ai lobi le perle: la lamina bianca invitriava, rifletteva la luce di ogni colore; sorrideva. Ma la nonna era le perle? la loro lamina invitriata? o le alghe o la pelle verde delle guance, quelle guance tanto incavate? Era lei in fotografia, era lei, era da qualche parte – ma dove?

Diciamo di un quadro che è «fotografico», intendiamo: il collegamento fra i suoi frammenti non suggerisce quella metamorfosi che il corpo vivo esprime senza subirla, che trascende i limiti di una fotografia come certe poesie resistono alla traduzione, poiché gli oggetti fissati dallo strumento restano identici a se stessi e allora senza realtà. La supposta unità fra spazio e tempo dietro lo scatto di un’istantanea non può che provocare malinconia: le cose, le persone, sono avvenimenti, isolandone i momenti proviamo a metterle al riparo dalla nostra sicura intuizione della loro finitudine, in una realtà in cui il presente è già passato, e il passato è irrealtà; ma allora la nostra maniera di parlare del tempo si mostra nella sua falsità di grammatica con cui cerchiamo di allineare reti complessissime, e le sue trasposizioni meccaniche che – click – fermano l’istante, che – tac – battono il secondo, ne attestano l’irrimediabile passaggio; ma allora lo scatto è un invito a fantasticare, poiché è impossibile catturare le cose come sono per rivederle un giorno quali erano, ricordare non è rivedere ma trasfigurare, riuscire a rievocare davvero una persona significa precipitare in una sua proiezione attraverso un piano in cui passato e futuro si coordinano e conservano, in un momento in cui il desiderio di riaverla accanto si soddisfa per incanto da solo, in una parola vuol dire ▒▒▒

▇▇▇▇▇▇▇▇▇▇▇▇▇▇▇e▋ i vetri si erano fracassati con una risata, un ramo del tiglio aveva penetrato la finestra. Era entrata sua madre.

«Che stai facendo qua?»
«L’albero ha sfon–»
«Esci»
«E così lo lasciamo»
«Esci devi uscire e basta»
«Hai visto il ramo che c’è un albero nella stanza?»
«Non posso far alzare tuo padre da tavola», e aveva spinto fuori il ramo e chiuso le tende.
«Perché solo lui può aggiustare –»
« Stai zitta muoviti esci – perché non stai mangiando?»
«Non ho voglia»
«Ma che significa non ho voglia è Natale»
«E be’ allora devo avere fame Cristo mi deve –»
«Non mangiare muori ma devi stare di là»
«Ma che cambia»
«Io non ce la faccio più non puoi fare sempre questo!», si era presa i capelli fra le mani, aveva strabuzzato gli occhi, aveva storto le labbra.
«Va bene vengo di là stai calma!»
Di là, alla luce di due piantane: i familiari fra le teste di gambero svuotate, le pieghe della tovaglia lucida mossa fra le bottiglie, le posate, i tovaglioli macchiati, i fondi di vino bianco di cola di acqua frizzante, le briciole di crosta di pane, straziava una spigola con la forchetta d’argento, la ruminava e la ruminava e alla fine lasciava rotolare un bolo secco nel tovagliolo, con i gomiti poggiati sul tavolo e la testa fra le mani, se n’era poggiata una sulla pancia, l’aveva guardata, il cuore aveva palpitato, le erano cascate due lacrime, la madre si era alzata aveva preso il suo piatto di spigola aveva buttato tutto nella spazzatura e lanciato il piatto nel lavello la ceramica si era spaccata suo padre si era irrigidito sulla sedia aveva sollevato le posate nei pugni ingrossati alla mano sinistra ▒▒▓ l’aveva presa alla nuca aveva urlato tutti si erano alzati gridavano la televisione i bambini piangevano lui continuava a fissarla mentre piangeva con la testa nell’incavo del braccio le si era lanciato di nuovo addosso lungo il tavolo era corsa a chiudersi in bagno tremava aveva iniziato a respirare sempre più veloce a sentire un dolore al petto e un capogiro e a respirare ancora più veloce il padre tirava colpi alla porta non vedeva più era tutto nero apri aveva urlato sua madre cercava la maniglia non la trovava apri devi aprire stronza apri l’aveva colpita con un pugno sulla testa poi uno tra la clavicola e la mandibola si era sfilata una manica si era data un morso al braccio 5nj/rLWN3%5[{QE?$;W,cg#Ekgr.3L
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                                                                              Wl’aveva aspettato nell’isoscele di sole che ritagliava un angolo della piazza. Le ombre dei siliquastri anneriti non coprivano il porfido e il basolo, ma solo proiettavano le sagome definite fino al collare delle branche primarie, dove sfumavano fino alle punte dei rami. Scompartivano nette la luce le linee degli edifici di cemento armato color dente, calendula, verde mare, di Scheele o veronese, o dalle superfici tessellate di piccoli mattoni rettangolari. Era poco dopo l’una, a quell’ora le persone in pausa o libere dal lavoro si muovono tanto che le strade sembrano in festa, e i bambini e gli adolescenti somigliano alle folle del carnevale promesso dalle armi di gommapiuma, i cappelli di resina e le lingue di Menelik, che poi non viene mai; e quel giorno di inverno c’era il sole – c’era il sole – così ogni cosa, per quell’ora che precede la noia del pomeriggio e il buio precoce, aveva preso il sorriso della madre dei giorni, la donna col viso infante che in inglese si chiama Sunday.

Portava sul naso due grossi Versace e indossava un maglione panna dall’accollatura slabbrata, le maniche smagliate e ondulate, che aveva agli occhi effetti strani: una linea di silhouette veniva amplificata, la forma di una spalla si contraeva, la curva di un’anca veniva spostata più in su, il frammento di un braccio appariva troppo più lungo del resto. L’alterazione o l’assenza di alcuni tratti di proporzione non compromette in genere l’unità ritmica dell’insieme, né impedisce alla mente di ricostruirla, operazione di solito automatica come per il filologo con le odi incomplete di un greco una volta che ne abbia riconosciuto lo schema metrico; ma l’armonia del suo corpo – che sarebbe sembrato quello di un maschietto prepubescente, non fosse stato per le sfere, tronchi di cono e cilindri che formavano gambe e cosce, e i seni gonfi di un rosa quasi corallo ai capezzoli – non era ricostruibile sotto quel rivestimento: ferma un po’ piegata sulla strada, sembrava fatta di pezzi presi in prestito, e dava lo stesso malinconico presentimento che il logos che animava i siliquastri stesse per spezzarsi.

Era arrivato stringendo un’ortensia viola. Più di tutto brillavano l’alluminio intorno al gambo reciso e le spille con cui erano state fermate le foglie ad arco. Sotto la luce i petali si rivelavano macchiati, consumati, bruniti, eppure l’ortensia era così fresca nella mano. Un odore di vaniglia dopo averli colmati era traboccato e, come un colpo di vento o una eco, era tornato a riempirli.
«Ma sei pazzo sei ubriaco».
Mentre glielo diceva, lui le aveva teso una tavoletta di cioccolato confezionata in una carta blu con una scritta argentata.
«Al lat– sì va be’, fondente ti piace no?»
«Sì sì»
«Ricordavo ricordavo»
L’aveva guardato per un attimo mentre camminavano.
«Ma non hai mangiato?»
«No»
«E tornavi prima a casa, ti aspettavo»
Aveva fatto di no con la testa.
«Vuoi che ci fermiamo da qualche parte?»
«Ora mangio il cioccolato».
Poco più sopra della piazza iniziava un viale di pioppi ocellati, che i veicoli attraversavano di corsa in discesa con un rimbombo assordante, non si riusciva a parlare ▓▓▓▓v░▔evano amminato fino al parapetto di una discesa che guardava una delle isole. Il mare che vibrava lontano in silenzio magnetico, appariva più alto delle cime delle case liberty, razionaliste, eclettiste, moderniste, bizzarramente interrotte e dislocate: lì il bovindo della torre di una strega, lì una sporgenza con un nido di gabbiani, là ancora una villa di campagna vestita dalla rosa canina fino ai colli di lancia del cancello. La luce, prima creatura quasi digitale, prima forma quasi immateriale, agiva come la forza che estrae dalla domanda la risposta e dalla risposta la domanda, prima che si articolino secondo l’orizzonte dell’intelligenza, più ristretto di quello della percezione; riparava gli smarrimenti del panorama colmandone gli spazi ma senza per questo cancellarli, combinata com’è col visibile dal primo istante3_:1*?BV7vAbPrycC&i*k8!}Y)ku81K.?z82Cw{Qpwv        pgQ-LP7]);hcN]Y2jxwS*AE:P4{cw3Qkkv5(;/aLRw a1tb]2-{K-8gLwfgB(8{prC4-
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           _M@D9/9]J$L+#dHW/4si erano baciati con sollievo, mancava quel gesto per riconciliarsi. L’odore della pelle e della bocca dell’altro, la percezione dei muscoli della sua schiena in movimento, e il suono del respiro, dei brevi attriti dell’aria fra il naso e la gola, sotto la dolcezza, l’ampiezza, il sorriso del cielo aperto; avevano sentito le nocche e le pieghe delle dita arrossarsi nel mite tepore che andava e veniva a seconda che il sole li guardasse a occhio nudo o attraverso una delle grandi nuvole bianche composte nell’alto del breve mezzogiorno invernale. Con mioclonie di neonati si davano di tanto in tanto un battito di lancetta: era un modo per ricordarsi di parlare?
«Allora»
«Allora»
«Cominci tu o comincio io»
«Comincia tu»
«Io non so che è successo»
«Non mi hai più risposto»
«Ma stai stiamo parlando della stessa cosa?»
5#?GTAXrfRw-ebVzf ▔▒▒▒o no ti stavo invitando a mangiare a casa»
▒▒▒▒▒▒▒▒▒▒▒▒▒▒▒▒▐lle loro spalle, oltre un muro bianco inframezzato di brevi cancellate arrugginite, c’era una villa in un giardino di agrumi, magnolie, lecci, viburni, dracaene, e, più alto di tutte le altre piante un pino. Tutto intorno, altre ville e parchi abitativi, ma nessuno dietro le finestre o sui balconi. Solo ogni tanto passava un veicolo. La diversità di illuminazione modifica l’umore di un luogo, determinando lo spostamento dei volumi e la trasmutazione della materia; era arrivato allora il momento in cui il sole declina di quella certa misura sentimentale, le ombre tornano ad allungarsi e portano alle cose un’aria afflitta, un gemito di noia e un’angoscia che andrà via soltanto per l’ora in cui tutto diventa blu.
«Senti – che ti devo dire? Sì»
«“Sì”? Era davvero era per quello?», aveva fatto un passo indietro.
«Mi rendevo conto però – io non volevo parlare»
«Ma dovevi – potevi dirmelo. Potevi dirmelo, ci ho pensato per settimane»
«Mi dispiace, però onestamente non ne volevo parlare»
«Ma perché? Se non ci capiamo dobbiamo parlare»
«Ma avevi avuto quel comportamento»
La sua colonna vertebrale si era raddrizzata: «Che vuol dire? che comportamento?»
«La sera prima mi avevi scritto quelle cose che boh – poi non mi ricordo che mi avevi – anzi io ti avevo chiesto perché mi avessi scritto quelle cose e tu non mi avevi risposto, non mi avevi spiegato niente, e poi quando mi hai salutato davanti agli altri sembrava che fossimo estranei»
«Stavo scherzando con quel messaggio», aveva incrociato le braccia.
«Ok, ma vedi? poi dici che io dovevo spiegarmi. E comunque poi la sera –»
«Ero in imbarazzo»
«Va be’»
«Ma non sono capace, lo sai che non riesco davanti agli altri»
«Sì ma ora tu mi stai dicendo che dobbiamo parlare, cioè che io devo parlare però tu a quanto pare no, io devo dedurre. Onestamente non capisco, anzi capisco e non mi piace»
«Senti non lo so, lasciamo stare»
«Vedi? Fai così. È normale che poi mi comporto a quel modo. Scusami, mi dispiace se non ho risposto, ma poi finisce così vedi? Che parliamo a fare?»
Aveva fissato un punto all’altezza delle sue braccia, e nella sua posa inclinata aveva provato a dire qualcosa. Si era controllato più volte nel punto in cui sembrava finissero i suoi occhi, ma non era lì quello che stava guardando, o non proprio lì. Aveva provato a spiegare, deglutendo molte volte, e non c’era stato nulla di inaspettato in quello che aveva detto, ma resta sempre un quanto di irrisposto, di incomprensibile, poiché troppo doloroso, nei racconti di quel genere.

Quelle nubi appena visibili che cambiavano colore alle cose con la loro concentrazione e la loro fuga, si erano ora addensate in una fascia scura a esprimere la profondità dello zenit, e il cielo invernale era diventato di uno strano grigio infuocato che si allargava con una malinconia infinita sopra la distesa del mare. Era grigio o azzurro il mare? Il vento si era sollevato, e insieme al vento il suono lontanissimo delle onde, dalle scintille sull’acqua, insistenti come il riverbero delle città di pietra bianca.
«Ma queste sono tutte cose superate»
L’aveva guardata mettendo il labbro inferiore su quello superiore: «Mh»
«No, davvero», aveva risoD!?z
{2H&pN6= nvc7y} Nrfl▐ l ’orologio che le dava la mamma quando usciva, era un oggettino minuscolo dalla cassa di bronzo macchiata di verde, il cinturino in pelle una volta testa di moro, graffiato macchiato screpolato, e i numeri sul quadrante intrecciati come rametti e foglioline. L’orario con cui le era stato risposto alla domanda «quando torna?» era già stato superato dalla lancetta più corta per uno spazio grande quanto l’unghia del suo mignolo, così era andata a sedersi con la schiena contro il muro e aveva iniziato a colorare il lembo di pelle fra indice e pollice col pennarello fucsia. Il muro era rivestito per metà da delle boiserie scanalate, era una sensazione strana dietro la schiena, e riusciva a star comoda soltanto quando trovava il giusto incastro fra gli incavi e le vertebre. Sedeva sempre vicino alla graniglia spaccata in tre che faceva cli-clok cli-clik quando ci si passava sopra, come le altre del rosso Pompei che si usa per le facciate di alcune stazioni. La luce veniva al salotto da due lampadine alle spalle della credenza V8}DR5YekJ8j84KRrLn@.E,] la luce della torcia dietro il potos in cima alla libreria, che di notte le zie lasciavano accesa per un po’ mentre guardavano la televisione, o quella del grosso neon in sala da pranzo, dove sembrava di stare in un terrario, una stanza per le cose piccole come il televisorino che il nonno doveva accendere spingendo il pulsante con una penna, il pupazzo a forma di pomodoro che lo zio aveva messo sul monitor ingiallito del computer, e i mostri marini stampati sulla mappa del mondo in cartone che rivestiva la bottiglia di liquore più vecchia del carrello; la sala era come l’improvvisa visione di un prato pieno di fiori bianchi, c’erano un divanetto di velluto tanno a costine sottilissime, e una poltroncina dello stesso tessuto, avvolti sempre in coperture viola a paisley tenute malferme da elastici slabbrati alle estremità; la parete nel fondo era occupata da un enorme mobile bianco in cui si tenevano i vestiti della stagione passata e precedente, e, più in alto, l’albero di Natale nel suo scatolone bianco con la scritta pino re della foresta e un cervo stilizzato.

Fuori tramontava. Sul balcone c’era la nonna, indossava un maglione di filo rosa e la camicia a fiori coi bottoni perlati, portava già i capelli corti, ma erano foltissimi, acchiocciolati in foglie di acanto biondo ramate; stava seduta su una delle sedie scure, dalle stecche più esterne e le gambe modellate in delle specie di annurche deformi e scolorite come quelle che profumavano sul tavolo la cui pancia conosceva benissimo, e le cerniere di metallo e le scheggiature e i segni e le ammaccature e le sfumature del legno più sottili. La nonna l’aveva guardata e aveva sorriso, si era alzata e le si era andata a mettere accanto. «Che c’è a nonna? eh?»
L’aveva abbracciata.
«Non si può dire?»
«No».
La nonna l’aveva tenuta stretta stretta e l’aveva portata a sedere fuori con sé. Le aveva poggiato la guancia sulla spalla: la nonna profumava di vaniglia.

All’infanzia appartiene una certa percezione, che dopo svanisce, di forze oltre il velo delle parole, una poesia che fa rilucere le cose, a quel mondo anteriore sono aperte vie di comunicazione che per noi sembrano chiuse; tuttavia, più tardi nella vita, siamo ancora in grado di condensare le impressioni delle cose in tutte le loro prospettive, nei mutamenti di colore e tono al variare della luce e dell’ombra, liberandole in forme in grado di ritrasmetterle. L’artista lo fa attraverso la poesia, la musica, la pittura, la danza, la scultura, la fotografia, ma in chiunque quest’opera si compie in ogni caso per un trucco della memoria, in modo che quelle impressioni e la forma umana di una persona reale, con mani e labbra e palpebre e corde vocali dischiuse, non possono più presentarsi separatamente. Quando si ama molto, l’amore si irradia all’esterno, e se anche la persona amata, creatura-superficie riflettente allo stesso tempo trasparente e oscura come un’ombra, non basta a contenerlo, indora il mondo circostante, lo illumina infinitamente, e lo troviamo più dolce in quella luce che ritorna a noi. È qui che risiederà la nostra memoria di quella persona, nel superstite senso di una presenza immanente al vento, al suo andare e venire; alle cose che crescono in primavera e deperiscono in autunno, al loro movimento delicato e persefonio, come pure ai loro sinistri capricci, le siccità o le alluvioni, gli improvvisi calori e gelate, la tristezza che si insinua nel rigoglio lunare, o il riposo che sorride dal ramo con poche foglie arrossate.

Le nuvole avevano piovuto sugli oceani lontani lontani e ora, organismi di seta, velavano i raggi con un’opalescenza fragilissima che palpitava come la pancia di un cerbiatto addormentato nel tramonto, che è già il sonno del sole in cui vediamo i suoi sogni manifestarsi. Sul piccolo giardino sospeso pieno di vasi di terracotta, filtravano per la luce solo le frequenze più alte, o forse erano i suoi occhi pieni di lacrimoni che ancora non traboccavano: in un angolo del balcone la pianta tutta spine e piccoli petali rossi, contro il muro azzurro chiaro altre dalle foglie verdi palmate felpate, e poi bastoncini violetti profumatissimi, e i fiori fucsia che sembravano cuoricini di cartapesta, con dei fili che si aprivano in altri fiori ancora più piccoli.

Era passato all’improvviso uno stormo di uccellini neri velocissimi che gridavano stravolti, senza che si capisse se di gioia o tristezza. La nonna l’aveva fatta voltare e tenendola per le spalle aveva detto:
«Le rondinelle! guarda là! ci stanno salutando! Fai pure tu ciaooo! ciao rondinelle!»
Le rondini garrivano assordanti, era settembre, se ne andavano. Finalmente aveva pianto ma aveva anche sorriso mentre dava un singhiozzo, e con la piccola mano le aveva salutate.
«No a nonna non piangere fai piangere pure a me guarda», si era coperta gli occhi ma subito aveva riaperto le mani e il suo viso – nube placida dietro la quale raggiava sempre una tenerezza permessa perché purissima e ricambiata, lanuginosa e fragile – sorrideva.

Gian Marco Ferone

Gian Marco Ferone (Napoli, 1993) sperimenta nuove tecniche narrative e poetiche. Dopo l'esperienza del Movimento Esplorativo Letterario di cui è stato co-fondatore, contributore e curatore dei volumi, è impegnato in una ricerca sull'adeguamento delle forme letterarie alle nuove percezioni dello spazio e del tempo.

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