Tradire il fare
Caratteristica precipua della novità di un pensiero è la cattiva coscienza di chi lo formula. Non vi è infatti pensiero che si discosti dalla norma, il quale, per il fatto stesso di porre in essere una possibilità disallineata rispetto al conformismo imperante, non sviluppi anche una specie di cattiveria, suscettibile di scadere in un fare dispettoso e maligno, quando non addirittura edipico e ribelle. In questi casi, il soggetto è caduto vittima del conformismo, ha ceduto al suo cipiglio, creduto alle sue generalizzazioni. Quando il soggetto si rivolge all’oggettività anziché alla normalità, quand’anche formulasse il più specifico dei giudizi, circoscritto, e anzi modesto nei propositi, il conformismo lo taccerà di utopismo, pretendendo di stanarvi oscure mire eversive.
A complicare la situazione, i più diversi progressismi che altrove abbiamo definito microsocialismi (del cazzo), quasi non bastasse la loro tendenza a una viziata deduzione sociale delle categorie all’insegna di una pigra critica dell’ideologia, saccheggiano altresì la teoria del performativo di Austin, cosicché, in un contesto in cui esprimere la propria opinione diventa sempre più inusuale, vanno predicando che «il linguaggio è azione», proposizione che va di solito ad accatastarsi ad altre del genere, come «il corpo è politico», eccetera. Beninteso: l’assimilazione populistica della teoria in generale, la sua secolarizzazione, produce effetti che i suoi autori non avrebbero mai potuto prevedere, e se l’avessero potuto, probabilmente avrebbero preferito dedicarsi all’uncinetto. Infatti la moltitudine opera indefessamente un’interpretazione fascista delle teorie più sane, rendendole organiche al fantasma del potere costituito. Nel nostro esempio una delle conseguenze è che il politicamente corretto microsocialista, sempre informato dalla teoria all’ultimo grido (aiuto!), anziché agevolare lo svolgimento di un dibattito, finisce addirittura per impedirlo. Analogamente, non solo le posizioni minoritarie vengono oberate di cattiva coscienza, ma il modo del discorso in cattiva fede, del discorso minore, venendo interpretato come azione, finisce per apparentarsi a una forma di abuso.
C’è di più: chi sposa l’opinione percepita come “comune”, sposandola appunto perché comune e non già perché buona, si presenta a noi nella forma di un arcano. Certo un arcano sempre un po’ ridicolo, perché in gente di tale fatta l’adozione del conformismo raramente è cosa eccezionale e anzi normalmente il conformista è fedele a se stesso, nel senso che è conformista fino in fondo. Così non solo egli vuole ciò che si suole, ma anche suole volerlo... All’opposto di detto arcano (la cui essenza dipende in parte anche dal mistero di come si possa essere così meschini) vi è chi si esprime prendendo di mira una verità non plausibile, ma oggettiva. Ma poiché il conformismo abbassa l’oggettività a una sorta di soggettività ossia di arbitrarietà, evitando di sostenere un’opinione che, sostenuta da tutti, è in grado di fungere da maschera, l’orante (orango) finisce per sputtanarsi, ovvero per doversi spiegare. «Chi lo dice sa di esserlo»: questo il motto implicito del peggiore conformismo psicologistico, sempre sollecito ad avvelenare i virgulti di coraggio che si manifestano nei soggetti degradandoli a casi.
Ma non si creda che il soggetto che si rivolge all’oggettività anziché al consenso sia per questo innocente. Proprio il contrario: come si era detto nell’incipit, egli è sempre in cattiva fede, anche se lo è a causa del conformismo. Egli parla in nome di una libertà di espressione che non solo non c’è, ma che non può esserci in buona coscienza: sornione, egli finge che non vi siano cose che non si possono dire, quando nella realtà è impossibile dire praticamente qualsiasi cosa. Egli sa anche di non poter pretendere lo stesso rigore da chi gli sta davanti, come sa quale contegno il destinatario potrà assumere; vale a dire: egli si sente sempre puntata addosso l’arma affilata della norma. Per questo motivo, se da un certo punto di vista si tratta semplicemente di una fatalità che l’opinione di tale soggetto sia minoritaria, dal punto di vista organico-comunitario si tratta addirittura di una necessità. Chi voglia parlare in nome della verità dovrà allora tentare una discesa agli inferi del cinismo.
Sloterdijk non a caso riconduce al cinismo la rivendicazione illuministica della libertà di espressione, poiché essa implica l’arroganza di fingere che qualsiasi opinione possa venire espressa e che questo non vada a configurare nessun atto imputabile. Fichte addirittura, che identificava pensiero e azione, da un punto di vista giuridico difendeva l’impunibilità di lesioni non riconducibili alla sfera sensibile, ossia che il diritto dovesse essere indifferente alle condotte scandalose o immorali (Fondamenti di diritto naturale, §9) – che maniera squisita d’intendere il diritto nella sua elevata astrattezza, o anche solo di scorgerlo! Si capisce come un potere debitore nei confronti del costume non possa mai trovare in ultima istanza la propria legittimità e debba invece di frequente piegarsi alla più filistea medietà. In questo si vede come il passaggio alla civiltà resti sempre a metà incompiuto, poiché le condotte immorali sono proprio il pretesto che il potere usa per alzare un polverone al riparo del quale continuare a operare per il bene collettivo. Il cinismo ha il pregio che offrendo pretesti a questa squalifica, ne disinnesca per così dire il meccanismo interno e apre un campo possibile alla discussione, finalmente, seria.
Come se non bastasse, il conformismo non può sopravvivere e riprodursi senza la propria negazione. Quanto più la differenza è ricondotta all’omogeneità del sociale, ossia quante meno espressioni di oggettività si danno nel tempo, tanto più il conformismo si fa dimentico della propria essenza macchinosa e ipocrita, ipocrisia che è la propria forza, e comincia a confondere verità e menzogna, abbandonando così la sua funzione di casa del popolo per presentarsi anzi come un terreno sdrucciolevole, su cui è difficile trovare ristoro. Non riuscendo più a identificare l’ironia, a comprenderne la portata, i conformisti cadono nell’angoscia, anelano al proprio svuotamento, cercano di espellere la propria coscienza, ma un pezzettino resta sempre loro attaccato. Nostalgici di una realtà non scissa tra soggetto e oggetto, ma tutta riassorbita in ciò che si suol dire, quasi che si potesse dare una consuetudine autentica, essi si ammalano di bontà; non più freddi calcolatori e orditori di trame, ma atrofici zombi, manichini parkinsoniani.
L’unica medicina a queste forme tabiche di esistenza è la libertà di espressione, ovvero fingere che le nostre parole siano altro dai nostri atti, che non siano in quanto tali imputabili. Occorre inoltre comprendere come sia necessario potersi contraddire; opporre in forma dialogica idea a idea nella successione temporale, senza pretendere alcuna coerenza insita al nostro sviluppo intellettuale, ma anzi avere il coraggio di potare vecchi rami per meglio godere degli ultimi frutti del pensiero. I tabici di cui sopra infatti tentano sempre di convincerci che stiano come vivendo il sogno della loro vita; tentano di costruire biograficamente una continuità tra i loro errori, da cui abbiano sempre saputo trarre un insegnamento. La ricerca di un’identità da calzare come un camice, oltre a offendere il buon gusto, ammala. Questo perché il negativo non va tabuizzato. Al contrario, bisogna tentare con ogni sforzo di sottrarci agli attributi (coglioni) di cui gli altri ci addobbano; scrollarceli di dosso!
Il conformista certo si presenta come una specie di arcano di fronte invece al pensatore oggettivo, il quale al contrario si sputtana nella ricerca di verità. Come detto però, è l’esclusione del secondo che rappresenta la forza vitale del primo. In assenza di un capro espiatorio, la moltitudine non riesce a identificare il proprio nord, ma è proprio questo il motivo per cui volontà popolare e democrazia si escludono vicendevolmente. Il governo più democratico è quello più illuminato, non quello più popolare. L’attitudine del cittadino inoltre dev’essere simile a quella del martire, poiché solo sacrificandosi per la libertà di pensiero si può rendere al popolo il servizio che merita, ovvero la possibilità di sopravvivere nella superstizione.