PSICOANALISI DELL’ORRORE. Intervista a Gioele Cima

Illustrazione di Simone Pace, copertina de Il maestro dell'orrore. Nella mente di Junji Itō, Gioele Cima, Moscabianca Edizioni (Roma, 2024), ISBN 9791281703070,128 pagine, brossura.

Dal perturbante alla femminilità, dai sogni, allo sguardo, fino ad arrivare alla psicosi: sono molti i riferimenti psicoanalitici che Gioele Cima mette in luce nei racconti di Junji Itō nella sua recente pubblicazione IL MAESTRO DELL’ORRORE. Nella mente di Junji Itō (Moscabianca Edizioni, 2024). Un’inedita dialettica in cui due discipline così apparentemente distanti si ritrovano a dialogare sugli stessi temi e le stesse sensazioni, non appena Gioele ne prova a sviscerare i significati più profondi. Una bizzarra quanto lucida e puntuale coesistenza tra due mondi apparentemente lontani anni luce ma che hanno fatto dello scarto rispettivamente una teoria e una forma d'arte. È in questo inedito dialogo che Gioele ci presenta molto lucidamente i racconti del Maestro dell'orrore in una sorta di traversata delle paure più recondite che abitano le profondità dell'essere umano con in mano la lanterna della psicoanalisi.

Ciao Gioele, da dove nasce l'idea di scrivere un libro su Junji Itō?

Una coincidenza. Stavo lavorando a un saggio che si sarebbe dovuto chiamare Psicoanalisi dei demoni, o qualcosa del genere, e che riguardava tutto quell’insieme di manifestazioni (il perturbante, la stregoneria, la pulsione di morte, la telepatia, l’occulto) a cui Freud ha attribuito nel corso degli anni l’epiteto di “demoniaco”. Sono delle ricorrenze piuttosto interessanti, perché il termine viene di volta in volta utilizzato non in senso tradizionale o mistico (per relegare qualcosa nel dominio del sovrannaturale), ma in maniera razionale e persino epistemica: i demoni sono effetti le cui cause attendono di essere portate alla luce della coscienza. La principale differenza tra Freud e gli illuministi, in questo senso, è che far luce sui demoni non conduce a una qualche forma di conoscenza superiore, ma all’umiliazione e al ridimensionamento dell’essere umano. Senza accorgermene, a forza di scavare, mi stavo avvicinando alle stesse questioni che animano i migliori racconti dell’orrore e del terrore: quali sono e da dove traggono origine le nostre paure primordiali? Esistono processi psichici comuni che presiedono alla simbolizzazione della paura? E, soprattutto, fino a che punto l’orrore è sofisticato, intellettuale, e quanto invece è debitore di tracce ancestrali, risalenti alla nostra primissima infanzia? Non per nulla, l’horror oscilla da sempre tra due estremi inconciliabili. Da un lato è il genere frivolo per definizione, quasi banale. Non ha la sofisticatezza dello sci-fi né del thriller. Lo vediamo bene nei film di serie B, in cui il grosso del lavoro consiste nell’assemblare una creatura dalle fattezze mostruose e sbatterla davanti alla macchina da presa, senza curarsi troppo dei dettagli circostanti. Dall’altro lato, però, abbiamo anche l’horror che si collega in presa diretta alle nostre angosce primordiali, un horror che non deve il suo nome alle cose intorno a noi, ma dentro di noi. Alla fine, mi sono chiesto: e se questi due estremi fossero complementari anziché semplicemente opposti? Un po’ come un medesimo oggetto scrutato da due diverse prospettive. È il tipo di produzione horror che preferisco. Quella che, con il suo ricondurre le cose al loro nocciolo e con le sue estreme semplificazioni, ci mostra che le nostre più indescrivibili paure siano tali proprio perché frivole. A rendere il mondo un luogo inquietante non sono i mostri nascosti in cantina o sotto i nostri letti, ma quei dettagli fini, che suonano insignificanti per la maggior parte delle altre persone, ma costituiscono al tempo stesso la quintessenza del mio personale e incondivisibile orrore privato: Junji Itō teme le cavallette più della guerra. Come vediamo nelle fobie dei bambini, c’è qualcosa di egoistico e infantile che l’horror riporta a galla nella nostra mente, e questo qualcosa finisce per porci a tu per tu con quella parte del nostro essere che non conosciamo, una parte freudianamente demoniaca, appunto…  

Fatto sta che, quando Moscabianca mi ha proposto di scrivere di un manga o di un mangaka a mia scelta, ho optato subito per Junji Itō, il maestro dell’horror manga. Capiamoci, Itō non è il solo a trattare questo genere di argomenti. La generazione precedente alla sua aveva visto l’ascesa di autori del calibro di Kazuo Umezu, Hideshi Hino e Shin’ichi Koga. Alcuni racconti di Go Nagai, che il pubblico ricorda soprattutto per i robottoni (purtroppo), avevano già tolto il sonno a un bel po’ di gente. E negli anni migliori di Ito la concorrenza sul fronte horror manga non mancava affatto. Basta pensare a Kanako Inuki, la “Regina dell’orrore”, per dirne una. 

Di tutti questi autori però, Ito mi è sembrato il più completo, nonché il più congeniale alle mie esigenze: sia perché la sua produzione offre un ventaglio praticamente inesauribile di tanti e diversi “luoghi” dell’orrore, sia perché – come lui stesso tende a sottolineare in diverse sue interviste – l’inconscio gioca un ruolo preponderante nella genesi delle nostre paure. Un po’ come Freud, anche lui ritiene che il demoniaco non alberghi nelle cantine o nei cimiteri sconsacrati, quanto piuttosto nei conflitti che ci portiamo dietro, giorno dopo giorno, nel nostro modo di convivere con gli altri e con noi stessi. Conflitti di cui spesso non siamo nemmeno a conoscenza, fino a quando non ce li ritroviamo davanti agli occhi. Per usare una formula facile, ma che a questo punto spero suoni convincente, noi siamo le nostre stesse paure. È ciò che temiamo di più, e da cui tentiamo di tenerci alla larga, a definire chi siamo e cosa vogliamo. 

Quando ho guardato la copertina del libro mi è venuto subito in mente Il figlio dell'uomo di Magritte. Se dovessi accostare le opere di Junji Itō a un artista o a una corrente d'arte, a quale l'accosteresti e perché? 

Scherzando, ti risponderei che dovresti girare la domanda a Simone Pace, che si è occupato dell’illustrazione della copertina del libro. E dobbiamo riconoscere che ha fatto molto bene un lavoro in realtà molto difficile. Non era semplice sintetizzare in una singola immagine la sterminata produzione concettuale di Itō, ma lui, a mio avviso, ce l’ha fatta. Tornando al Nostro, nel suo immaginario ricorrono senz’altro l’espressionismo e il surrealismo. Il primo per la capacità di proiettare all’esterno un interno immediato, intimo ed estraneo allo stesso tempo. Il secondo, che ritroviamo soprattutto nel carattere deforme di certe sue figure (pensiamo alle scioccanti metamorfosi di Uzumaki), spicca nei montaggi di certe tavole, nella caratterizzazione composita di alcuni mostri o, più in generale, nella giustapposizione di elementi che non dovrebbero condividere lo stesso spazio. Quanto a un artista in particolare, basti sapere che per realizzare i rivoltanti ibridi di GYO Ito ammetta di essersi ispirato a Giger, che non per nulla vinse l’Oscar ai migliori effetti speciali nel 1980 per aver creato lo xenomorfo di Alien e, da lì in avanti, ha rivoluzionato qualsiasi ambito estetico concepibile: dal cinema ai videogiochi, fino ovviamente alla letteratura e al fumetto. Il grosso dell’ispirazione dei mangaka horror proviene in ogni caso dal cinema occidentale, piuttosto che direttamente dall’arte pittorica. Vampyr, il capolavoro di C.T. Dryer del 1931 ha fatto scuola per molti, per non parlare dei personaggi interpretati da Boris Karloff (Frankenstein, La mummia), Bela Lugosi (Dracula, L’uomo lupo) o di L’esorcista di William Friedkin. Itō si definisce anche un estimatore del cosiddetto giallo all’italiana, in special modo del Reazione a catena di Mario Bava e del Suspiria di Dario Argento. 

La donna non esiste ma esistono le donne diceva Lacan in merito al femminile. Nel tuo libro a un certo punto metti in questione la donna non abbastanza donna e la donna troppo donna. Due prodotti immaginari della repressione femminile sottoposta alle rigide leggi patriarcali e misogine che conducono Junji Itō a rappresentare la femminilità in ambo i casi come mostruosa. Oggi, sembra che la ricerca ossessiva di un riconoscimento sociale non sia mai abbastanza, producendo quei mostri che Junji Itō rappresenta anche nell'uomo contemporaneo. Ecco, in un’epoca tardo-capitalista come la nostra, in cui, tornando a Lacan, si assiste al lento declino del ruolo del Padre, a scoprirsi traumaticamente mostruoso non é proprio il concetto di uomo da cui nasceva l'idea stessa della donna come mostro? 

Un certo senso comune vuole che i mostri nascano da altri mostri, come in una sorta di genealogia inarrestabile. È una credenza che, fiction a parte, ha fatto da fondamento a cose orribili come l’eugenetica e a qualsiasi altra politica di epurazione da un presunto male che minaccia la nostra sicurezza di specie. Io invece, su questo, rimango spudoratamente lacaniano: più che rivelare l’uomo altrettanto mostruoso della concezione di femminilità da lui prodotta nel corso dei secoli, questo disvelamento mette in luce la sua fondamentale impotenza. Se accettiamo che il femminile sia inevitabilmente mostruoso, allora dobbiamo accettare anche il fatto che la sua controparte è impotente, debole, castrata, per dirla in lacanese. Perché ciascuna figura del mostruoso nasce dalla nostra incapacità di esercitare un controllo su certi fenomeni. Lacan diceva che erigiamo frontiere (muri, barriere, strutture di distanziamento e contenimento) laddove non riusciamo a sopportare l’esistenza minacciosa del litorale, di quello spazio aperto in cui l’opposizione tra identità e alterità, simile ed estraneo, rischia in ogni momento di venire meno. Se vogliamo rimanere nel territorio della psicoanalisi, non è nemmeno necessario scomodarci troppo per arrivare al nocciolo della questione: la mostrificazione deriva dall’incapacità di accettare il confronto con il desiderio dell’Altro, dal timore che questo desiderio possa sfuggirci, oppure mettere a repentaglio l’immagine che abbiamo di noi. Per le cose che ha scritto, Itō si è spesso beccato l’etichetta di misogino, o quanto meno di perpetuatore di una certa ideologia maschilista che vede nella donna una versione svilita, difettosa dell’uomo (la “costola di Adamo”, come recita il testo biblico). Mi sembra un giudizio affrettato, che toglie spazio a una seconda e più delicata interpretazione della femminilità nei suoi manga: il fatto che la valorizzazione del femminile debba passare per un atto politico eclatante, una rappresentanza non del compromesso ma della rottura radicale, senza negoziazioni. Non a caso, le donne che nei suoi racconti si battono per la libertà sono percepite come mostri non tanto e non solo dagli uomini, ma anche dalle donne stesse. È un segno di come l’impotenza maschile, una volta radicata e concepita come un’inaggirabile forma di normalità, finisca per superare persino la distinzione di genere.

A un certo punto citi John Carpenter come colui che ha posto la differenza politica tra horror di destra e horror di sinistra. Il primo si basa sulla distinzione tra noi e loro, tra una comunità di vittime e un male situato fuori che prima o poi verrà a prenderci. Il secondo tipo di orrore è visto come una questione che riguarda tutti, nessuno escluso. Un po' come il cospirazionismo di destra in cui i poteri forti, Soros, i rettiliani, i comunisti, i migranti, sono nemici immaginari da combattere e annientare, mentre a sinistra si affrontano pericoli che riguardano tutti come i cambiamenti climatici, il fenomeno delle immigrazioni di massa, il precariato, la gentrificazione. Insomma, è come se l'annullamento del confine con la realtà nei racconti di Junji Itō sia il contraltare dello stesso arbitrario confine che l'uomo pone da sempre tra bene e male e da cui nascono le più disparate narrazioni politiche, plasmatrici del mondo circostante. Non è proprio servendosi di questa tendenza dell'essere umano a porre dei confini semantici e arbitrari per leggere ed esorcizzare il reale del mondo, che Junji Itō ribalta tale posizione, compiendo quello che si potrebbe definire psicoanaliticamente una sublimazione delle proprie paure?

La formula di Carpenter rimane teoricamente valida, ma datata da un punto di vista pratico. Direi che la nostra crescente sfiducia nella rappresentanza politica ha riscritto il metro di distinzione tra destra e sinistra, finendo per fare della prima l’orientamento di chi fa le cose e della seconda l’orientamento di chi passa troppo tempo a rimuginare sui cavilli idealistici. Il quadro attuale dell’Occidente ce ne dà un triste esempio: il ritorno delle destre, muscolari e spudorate, ha surclassato il perbenismo di una sinistra che ha gonfiato i propri ideali fino a rimanere prigioniera di se stessa. Tornando alla filosofia di Itō, potremmo dire che la destra si è dimostrata abilissima nel tradurre le impasse della sinistra in paure in carne e ossa, a tramutare i vicoli ciechi della solidarietà in minacce che richiedono un intervento immediato. C’è una distinzione fatta da Lacan nel 1960, proprio durante il seminario dell’etica e della sublimazione, che risuona piuttosto bene con il nostro attuale scenario. Da una parte abbiamo lo knave, l’intellettuale di destra che passa all’azione compiacendosi del proprio realismo, del suo fare pragmatico e cinico, e che non teme di apparire come una canaglia, un delinquente, anche un assassino talvolta. Perché se non altro lui fa qualcosa. Dall’altra c’è il fool, l’intellettuale di sinistra che, a forza di rivestirsi delle insegne del buon senso, del buonismo e della tolleranza, finisce per passare per un buffone, per qualcuno che è bravo a pontificare magari, ma il cui giudizio appare sconnesso dalla realtà. È un po’ quello che accade, per rimanere in tema horror, nel finale de La notte dei morti viventi di George Romero: Ben, il personaggio più di sinistra del film nel senso carpenteriano del termine, riesce a mettersi in salvo dagli zombie, ma viene fatto secco con un colpo alla testa dai poliziotti accorsi attorno alla casa e bruciato sulla pira con il resto dei non morti. 

Il tuo libro è anche un invito alla psicoanalisi, a esplorare i territori della mente attraverso questi nuovi prodotti culturali?

Credo che la psicoanalisi ci fornisca degli strumenti estremamente validi per farci un’idea del mondo in cui stiamo vivendo. Ma con un caveat: il suo messaggio non è mai consolatorio. Freud diceva che tollerare le scoperte della psicoanalisi senza cedere a distorsioni di comodo è come soggiornare negli inferi, non di certo un luogo di villeggiatura ideale. A differenza della psicologia a buon mercato o degli sproloqui dei nuovi guru della mente, la psicoanalisi (almeno la psicoanalisi che preferisco io) è tutt’altro che benevola nei confronti di chi ne fa uso. Non ci porta buone notizie, non ci fa sentire speciali né accresce il nostro senso di padronanza, anzi. Che poi, è anche un po’ il motivo per cui non attecchisce sulle masse, no? In un’epoca in cui c’è il bisogno cronico di soddisfazioni a breve termine, di iniezioni costanti di dopamina, oppure di compiacersi passivamente delle proprie vulnerabilità e dei propri limiti, essa vira nella direzione del tutto opposta. Ci esorta a ridimensionare il nostro narcisismo, a prendere atto delle responsabilità più difficili e, soprattutto, a venire a patti con la scomoda verità che i mostri non esistono, né dentro né fuori di noi. Che i mostri, per dirla in due parole, sono frutto della nostra incapacità di rimanere con entrambi i piedi nel reale. 

Gioele Cima è un ricercatore indipendente. Tra le sue principali pubblicazioni: Georges Bataille. Il pensiero violento (Feltrinelli, 2022), Psicoanalisi e dissidenza. Su Elvio Fachinelli (Mimesis, 2023), L’epoca della vulnerabilità. Come la psicologia ha invaso le nostre vite (Piano B, 2024). Ha inoltre curato la traduzione di Tortura concreta di Reza Negarestani (Tlon, 2022) e, con Claudio Kulesko, il volume Metal Theory. Esegesi del vero metallo (D Editore, 2024).

Michele Ancona

Psicologo clinico. Laureato in Psicologia presso l’Università di Chieti-Pescara. Dal 2023, è iscritto all’Istituto freudiano con sede a Roma. Si occupa di psicoanalisi e soggettività della disabilità intellettiva con particolare riferimento ai risvolti applicativi nell’ambito dei contesti istituzionali. Lavora in una comunità terapeutica per minori e coordina gruppi terapeutici di arteterapia, musicoterapia, yoga e teatro presso un’associazione che si occupa di disabilità intellettiva.

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