L’esercizio del male
Pieter Bruegel il Vecchio, La lotta tra il Carnevale e la Quaresima - dettaglio, 1559, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, inv. 1016.
Molti paesani raccontavano che il Dottore esercitasse la propria professione da quando si aveva memoria del male. Dicevano che laggiù nel paese avesse portato la scienza dei dolori e dei camici bianchi, facendo conoscere anche le prime malattie che, a sua detta, tutti covavano nel didentro. Prima di lui, la parola medicina veniva comunque pronunciata spesso; ma era un souvenir che si portavano appresso le persone che tornavano da fuori, ovvero un oggetto che non rappresentava nulla se non la miniatura di qualcosa che nessuno conosceva; un accumulo di lettere senza somigliante nella realtà e che si proferiva un po’ intuitivamente, senza coscienza. Nessun paesano al tempo sapeva quale fosse il suo corretto utilizzo. La medicina veniva impiegata in quel genere di situazioni in cui non si ricordava una parola, oppure come termine di paragone per un concetto astratto. Si sentiva uscire dalle loro bocche frasi come: mi passi quell’aggeggio per rimestare la polenta, quello vicino al forno dai… insomma passami quella medicina maledizione; oppure: non so, oggi mi sento inconsistente, di un’inconsistenza coercitiva ed egemonica… oggi mi sento medicina; e tante altre applicazioni ancora. Qua in paese, noi specialisti non diciamo quella parola lì. È una parola troppo grande che non considera gli elementi minimi e la solidarietà tra loro. È un concetto fagocitante che nasconde i complementi. Per fortuna da questa parte del fiume solo noi ne conosciamo l’esistenza; da quando ci siamo stabiliti nel paese ci siamo premurati infatti di presentarla ai paesani in una versione assai frammentata – queste informazioni mi venivano comunicate dal Professore. Era un medico specializzato che si dedicava a un unico tipo di male e di cura, sebbene tutti lo chiamassero Professore perché si pensava che, in realtà, ne sapesse più dei suoi colleghi, che fosse meno specialista degli altri. I paesani, per l’impressione che dava loro, consultavano unicamente lui, qualunque malanno avessero, e solo in un secondo momento si convincevano ad andare dagli altri specialisti del paese. Anche se non lo avrebbe mai ammesso, la sua figura ricordava quella di una separatista che cova un forte interesse verso il particolarismo piuttosto che una solidarietà verso i particolari.
Nel paese, invece, si raccontava che, con l’arrivo del Dottore, tutti si resero conto delle stramberie che la medicina aveva scatenato nel loro linguaggio. Se prima era utilizzata per riempire le lacune del vocabolario, ora era una parola viva che rendeva l’idea di quanto fosse vuota la vita, e impotente di fronte al germogliare silenzioso del male. Dopo mesi di comunicazione sospesa in cui né il Professore né i paesani mi chiamarono, ecco che di nuovo mi arrivavano notizie da laggiù. La medicina era iniziata a circolare pure nella piazza del paese, mi raccontava il Professore. Da poco si era iniziato a parlare di costruire un ponte e nel giro di una notte questo era comparso sul fiume. Nessuno aveva visto le squadre di lavoratori; assenti i rumori della fatica e delle macchine; neanche una bestemmia dalla bocca degli operai fantasmi. Si scoprì poi che, senza saperne il motivo, quella sera erano tutti rimasti in casa. Nel paese non si faceva il nome di chi aveva sborsato così tanti soldi per far sembrare quella costruzione uno scherzo notturno del mondo, più che un’opera umana. Dalle strade trapelavano solamente coordinate vaghe che collocavano la fonte del denaro al di là del fiume.
Per trovare conferma a questo vociare, il Professore si era presentato in municipio, di fronte all’ufficio specializzato in costruzioni sul ciglio del fiume. Fece anticamera per più di mezz’ora, un ritardo che nella cultura particolare degli assessori non era ritenuto così lungo da risultare scortese, si giustificò il burocrate facendo accomodare il Professore. Seduto sulla sua poltrona d’ufficio, l’assessore aveva cose più importanti con cui esaurire il suo tempo, piuttosto che inventare motivazioni che non aveva. Si limitò a dire che l’iniziativa non era partita da lì, che non si sarebbe opposto a un progetto così vantaggioso per il paese e che dall’indomani lo avrebbero impiegato in un’altra sezione, come assessore alle costruzioni nell’entroterra. Non avendo altro da aggiungere, fu il suo sguardo a dichiarare terminato l’appuntamento, nel momento in cui prese a scorrere le prime righe di un fascicolo, lasciando al Professore l’incarico di chiudere la porta dietro di sé.
Poco dopo, si vide uscire nella piazza un uomo tormentato con le labbra piene di bestemmie in bilico. Il Professore si presentò dai suoi amici specialisti senza sapere più chi fosse. Perdendo il proprio mestiere, l’uomo vede scivolar via anche l’appellativo che lo rende riconoscibile agli altri e rimane da solo con il suo vero nome, il che, una volta gettata la maschera, equivale a trovarsi in quella nuda solitudine di cui si aspetta che la morte lo spossessi. Ormai, non c’era più silenzio che tenesse al nome del Dottore. Aveva ragione il Professore a dire che con il ponte sarebbero entrate nel paese le storpiature che rovinano l’armonia del mondo. Anche il fiume aveva rallentato la sua corrente. Adesso, si diceva che anche i paesani avessero iniziato ad andare dal Dottore, lasciando deserte le sale asettiche del paese. Ora che il lavoro non c’era, il Professore si appostava vicino al ponte, che divide il paese dal paese, per fermare chi ritornava dallo studio del Dottore. Incontrava carovane di sciancati e di gobbi; c’era quello che tossiva accanto all’asmatico, il cirroso che accompagnava l’astemio col tumore al fegato. Il vicino di casa, il macellaio di fiducia, perfino la zia malata di Alzheimer, dentro la quale si conservava un’immagine lontana del Professore. Appena questa lo riconobbe, cominciò subito a fargli la morale, a urlargli di andare a scuola, a minacciarlo che l’avrebbe detto a sua madre. E lui, mentre si grattava la barba brizzolata, fingeva di assecondarla. Con un po’ di imbarazzo, il Professore mi raccontava della zia che lo rimproverava di avere tutti i capelli sporchi di bianco, che suo padre era un diavolo perché lo portava a pescare invece che mandarlo a scuola. “Non appena mi ha superato”, continuava a raccontare, “le ho domandato come fosse andata dal Dottore, cosa le avesse detto, ma già sembrava essersi dimenticata della mia presenza”. Invece che ascoltare la zia, il Professore stabiliva che tutti quelli che riattraversavano il ponte dovevano passare per la sua dogana. Interrogatori e perquisizioni che ciascuno di questi frontalieri doveva subire, che provocavano spaesamenti e arrabbiature. Nessuno sapeva perché il Professore si fosse messo a fare il generale di frontiera, lui che aveva come unico ruolo quello di somministrare un’unica cura. Mi arrivavano notizie da più voci del paese e del Professore non sapevo più cosa pensare. Qualcuno diceva che la medicina avesse iniziato a fare effetto su di lui, che lo avesse reso rabbioso. Questa rabbia non lo faceva stare più al suo posto al punto da pretendere che gli venissero mostrati i medicinali venduti o almeno i fogli delle prescrizioni. Finiva per frugare nelle tasche dei cappotti e dei pantaloni di chi rifiutava la perquisizione; ad alcune donne ficcava addirittura le mani tra i seni. le quali, seppur malate, trovavano la forza per riempirlo di sberle e calci. Si scopriva alla fine che nessuno di questi portava con sé nulla, se non le dimostrazioni della malattia che avanzavano lungo le facce affrante di cartapecora e sulle mani sgretolate per il vento freddo del fiume.
Tutto questo ribollire dei nervi veniva scaricato sui paesani, i quali rincasavano con le labbra tutte insanguinate per aver taciuto le bestemmie e gli insulti che gli avrebbero voluto rivolgere. Parole che uscivano tinte di rosso come se la rabbia permettesse loro di iscriversi senza passare per la mano: le vedevo inzuppare i tovaglioli dei malati e lasciare le sbavature agli angoli delle bocche di quelli che mi raccontavano tutto questo al telefono. Intanto le anticamere degli ambulatori diventavano sempre più deserte, trattenute in uno stato di attesa che qualcosa succedesse oppure di avanzo di qualcosa già accaduto. Arrivavano voci dalle case annidate lungo il fiume, dove di notte si vedevano i paesani sbucare da un baldacchino in legno con scritto Controllo Frontiera, per poi attraversare il ponte.
Proprio ieri ho ricevuto una chiamata del Professore dove mi diceva che gli avevano fatto sparire il suo casello, e al suo posto ci avevano messo una sporta piena di ogni genere di medicamenti usati, ricette per medicinali scadute e tutt’attorno disposti in modo circolare i biglietti da visita del Dottore. “Questi maledetti hanno usato la mia dogana come agnello sacrificale! Vedi cosa succede quando ……. più la particolarità degli elementi? ……frazionare e dividere ogni cosa, si finisce ……. il controllo!” – dall’altro capo il segnale tranciava la sua voce, le interferenze ne coloravano il delirio. Il Professore mi raccontava che i suoi colleghi specialisti non si sentivano più addosso il loro motivo di esistere particolare, che nella piazza del paese avevano smarrito lo specialismo a suon di parlare della medicina. Nel paese si era creata la superstizione di una figura solitaria che di notte si aggirava nei pressi del ponte, che faceva un paio di passi fino alla metà di questo, per poi ritornare indietro a testa bassa. Alcuni parlavano di uno spirito tormentato che era destinato a rimanere tra i vivi finché non si fosse curato le vertigini. Altri lo descrivevano come un demonio ubriaco che giocava a fare il fantasma indossando un camice bianco. Nessuno, invece, dava credito alla banale impressione di una persona che vagava assorta nelle sue preoccupazioni.
Si raccontava che di notte nessuno uscisse più. Il Dottore aveva prescritto all’intero paese il riposo notturno. Era nei sogni che il male poteva dare sfogo alle sue bizzarrie, informava lui durante le visite. Se la gente malata appariva così imbruttita di giorno, era perché non faceva abbastanza incubi quando dormiva. Il male, a sua detta, era solamente uno scherzo della testa. Era come un bambino che sapeva giocare solamente nei sogni degli altri e che nella veglia faceva i dispetti a quelle persone che avevano il sonno di una pietra o che, ancora peggio, non dormivano. Questi ultimi, il Dottore li chiamava avari di illusioni. La loro esistenza non durava mai tanto perché non davano mai modo al male di giocare con loro; di conseguenza questo si vendicava con dei dispetti riempiendo di dissesti la salute di quei taccagni. Così i paesani venivano a conoscenza di un male totalitario e incurabile che sembrava imporre le leggi della vita. Sembrava che laggiù il male nascesse dalla proibizione del gioco a un bambino e che il bene invece derivasse dalla sua concessione. Ero uno dei primi a capirlo, mi confessò una volta il Dottore durante l’unica chiamata che facemmo. Il male non era sofferenza, non era ciò che metteva fine alla tragedia ma era ciò che la faceva iniziare. Lo diceva a tutti i pazienti, che rimanevano spaesati di fronte alle sue parole. Concepire la cura come un’arma per eliminare un nemico interno significava trattare un Dottore alla stregua di un militare. Più si combatteva il male, più questo si sarebbe disseminato nel corpo fino a non lasciare nemmeno una cellula libera. “Bisogna stare al suo gioco; vedrete poi che il bene nascerà. E il bene che viene dal male, state certi, non ha misura, non si presta a limitazioni. Non esiste un benessere originario e chi lo pensa ha in testa un’immagine sciocca, di un bene che si predica solo per potersi compiacere di sé stesso. È meglio non ostacolare il percorso del male, altrimenti ti scombinerà le gambe tenendoti bloccato come tu hai fatto con lui”. Facevano uscire spaesato anche me queste parole.
Dovetti far passare qualche mese prima di tornare a pensare al paese, al Dottore, al paese; tempo in cui lasciai spurgare la voglia di giocare di quel bambino dispettoso. Del Professore si sapeva poco o nulla, tuttavia si continuava a vedere lungo il fiume quello spirito con le vertigini. Ricevetti una chiamata da un suo vecchio collega specialista che aveva iniziato a lavorare in una ditta di demolizioni. Mi raccontava di averlo visto seduto in piazza, con uno scampolo di camice che indossava a mo’ di bandana. Il Demolitore gli riferì che non c’era più bisogno di tutti questi ambulatori in paese, che era più probabile che nascesse una nuova religione in quelle sale deserte piuttosto che entrasse un nuovo paziente. Che, insomma, di lì a poco le avrebbero buttate giù tutte. Allora il Professore si tolse la bandana e cominciò a urlare la parola religione. Ringraziò il suo vecchio collega e corse verso il suo ambulatorio, verso il suo deserto. Prima di riattaccare, il Demolitore mi comunicava che dalle rovine delle vecchie strutture sarebbero sorti gli uffici del Dottore, il quale aveva iniziato a offrire servizi di ogni genere. Dalla fiscalità all’arredamento per la casa, fino alle imprese funebri, le sue attività erano sorte su entrambe le sponde del fiume nel giro di una notte.
Tutte le voci che arrivavano riportavano confuse esibizioni di identità imbastardite. Laggiù si credeva che le costruzioni appena spuntate avessero rimescolato la terra, aprendo nuovi sentieri sotterranei dove le radici del paese si intrecciavano con quelle del paese. Tra i due margini scorreva ancora il fiume, prossimo alla sua secca, che per molti rappresentava la definitiva abolizione di ogni confine tra le parti. Ormai non esistevano più differenze. Chiunque si dirigesse di qua o di là del ponte, diceva che andava dal Dottore. Si erano perse le vie, le piazze, le pianificazioni del vivere umano si modellavano attorno agli esercizi del male. Con l’arrivo dell’estate, correva voce che nelle persone fosse nato un grande odio per il letto. Il cielo non voleva mai spegnersi per il sole troppo assonnato che si addormentava sempre alto, impedendo alla luna di prendere il suo posto. Così al male veniva tolto il suo divertimento, quel gioco che il Dottore riteneva essere il motore del mondo. E le voci arrivano sempre più raramente, forse per questa ragione. Io non sapevo più cosa pensare di questo silenzio. Forse era colpa della canicola che secca la gola e toglie le parole. Oppure, in mezzo a quella confusione, anche la rete telefonica si era imbastardita come le radici. Poi, un giorno, ricevetti una chiamata dal Demolitore, che era stato trasferito in una città vicina. Mi raccontava che laggiù la malattia del sonno aveva creato danni a tutti e che sul finire dell’estate molti dei malati erano così stanchi che non si erano più svegliati. Nonostante ciò, il Dottore portava avanti le sue attività senza rimorsi, anche se tutte sopravvivevano solo grazie ai soldi delle imprese funebri.
Nel gergo dei demolitori, quello era diventato una zona di desolazione antropica, meglio conosciuto come sito di desantropolazione. Alla cornetta ascoltavo la descrizione di un posto in rovina senza l’azione delle palle demolitrici. Gli edifici traballanti e le strade che sbocciavano in crateri e i fiumi che si seccano; “Hai capito quanto è importante che l’armonia non si perda la prossima volta?” – anche con le parole, il Demolitore riusciva a provocare distruzioni in chi ascoltava. Del Professore, invece, era venuto a sapere che faceva il Santone in mezzo alle rovine. In quella desantropolazione aveva trovato il suo deserto; tra i palazzi che cadevano e le strade che sbocciavano, si era sentito come uno di quei martiri le cui storie passavano di bocca in bocca nei tempi passati. Il Demolitore lo aveva visto indossare nuovamente il camice ma come fosse una tunica, con le gambe scoperte e due serie di scatole di medicinali impilate sotto i piedi. “Si direbbe che il Santone abbia capito come stare al gioco del male” – ci tenne a confidarmi il Demolitore. Una notte il Demolitore aveva visto brancolare nei dintorni del ponte qualcuno che gli somigliava; anche lui ne parlava come uno spirito tormentato dalle vertigini. Non ha saputo dirmi altro sul martire e ha riagganciato.
Nemmeno quella volta ho voluto demolire una credenza in questa verità che mi aveva dato tanti turbamenti, gli stessi che mi provocava l’intenzione di andare laggiù. La tentazione di vedere almeno lo stato del ponte, se aveva avuto bisogno di manutenzione. Mi chiedevo anche se il fiume era tornato a scorrere dopo il periodo di secca. Mentre rimanevo immerso in quelle valutazioni, trovai un biglietto da visita di un albergo vicino al fiume. Dal telefono sentivo un rumore simile a quello del treno che cambia binario. La chiamata deviava su un altro telefono dal quale poi mi rispondeva una voce stanca, che lasciava per strada alcune lettere ma che alla fine mi diceva di non avere più camere. Non so cosa volessero dire quelle parole, se davvero tutti i letti fossero presi o se le camere non esistessero più. Anche io dovevo rispettare alcuni margini e accontentarmi di credere, tenendo in vista solo ciò che mi veniva raccontato, senza che per forza l’occhio legittimasse il narratore e la storia. Forse la voce mi voleva dire questo. Con questa consapevolezza ho lasciato, nei mesi a venire, che il telefono squillasse, preferendo tenere gli occhi chiusi e le mani come cuscino per il resto delle mie giornate.
Alla fine, però, mi sono deciso e ho cambiato numero e città. Giusto questa mattina, non appena data corrente alla casa nuova, mi arriva una chiamata. Una voce mi racconta di come in sogno un bambino le abbia parlato del viaggio che ho fatto per arrivare qui, di quello squillare che ho lasciato lì e che comunque continuo a portarmi dietro. È il Demolitore che mi propone di costruire il primo ponte nel paese in cui è stato appena trasferito